Pompei all’ombra del Vesuvio in cinquatasei paesaggi ripetuti, es. 7 più 1/PA Ed. Pulcino Elefante, 2000 (Presentazione di Roberto Borghi)

Caro Giannetto,
ti confesso che Pompei ha sempre suscitato in me un senso di angoscia. Ancor più del lago dell’Averno - che in fondo non è che un tetro ma innocuo specchio d’acqua - i resti di quest’antica città mi sono sempre apparsi come un paesaggio vagamente infernale in cui la presenza di più o meno allegre comitive di turisti non ha mai intaccato il clima da the day after. Nonostante questa mia percezione alquanto catastrofica del luogo, non posso non compiacermi che tu abbia deciso di dedicargli un’opera imponente come questo libro. La tua scelta, infatti, mi conferma nelle interpretazioni che ho sin qui fornito a proposito dell’itinerario estetico da te intrapreso.
Pompei in fondo non è altro che un monumento inintenzionale alla memoria, una specie di sacrario dei ricordi più antichi dell’identità partenopea. Pompei, anzi, è, nella sua globalità, un ricordo condensato, rappreso, è la concretizzazione ante litteram di quel mondo di rimembranze solidificate che evocano le tue opere. Inoltre Pompei è un sito archeologico, o meglio il sito archeologico, il luogo in cui l’archeologia si esprime ai suoi massimi livelli, quindi una sorta di contesto privilegiato per un artista che è anche, come non smetto di definirti, un archeologo delle emozioni e uno storico dei sentimenti. E ancora Pompei è, in senso metaforico, l’estremo confine del Golfo, il limite ultimo di quel territorio più affettivo che geografico in cui transita la poetica del tuo lavoro. E infine Pompei è, per te, qualcosa di simile ad un ritorno alle origini, anche se in una prospettiva non ambivalente, un ritorno intrapreso in una direzione univoca: il Vesuvio, da cui avevi fatto iniziare il tuo percorso artistico attraverso la partecipazione all’omonima Operazione creata da Pierre Restany nel caso di Pompei non è più paesaggio di vita e di morte, ma solo di morte. E giunto a questo punto della nostra lettera, lasciami rivendicare il fatto che - fra i tanti critici, molti dei quali illustri, che si sono espressi sul tuo lavoro - solo io credo di aver sottolineato la patina tutto sommato luttuosa (bada che uso il termine con la consapevolezza di ciò che esprime) che talvolta si deposita persino sulle opere apparentemente più allegre.
Si, Giannetto, talvolta le immagini che tu recuperi e trasponi sulla tela hanno un carattere funebre, anche se espresso con uno stile a volte sontuoso e debordante, altre volte ironico e ammiccante. Ma dietro il clin d’oeil dell’uomo di gusto - e anche dell’artista navigato, diciamolo pure - io spesso intravedo lo spirito tragico della cultura partenopea, di quella cultura che ha anche in Pompei le proprio origini. Credo fosse proprio Plinio il Vecchio - che, come sai, è stato cronista e vittima della storica eruzione - a dire che il senso della catastrofe era uno dei maggiori stimoli alla ricerca di bellezza. Nelle mie rare visite di Pompei, lo stato d’animo angosciato non mi ha mai impedito di percepire la bellezza del luogo.
Allo stesso modo, nelle tue opere, la visione della patina tragica non mi ha mai impedito di constatarne il valore.