2000 - Castellanza (Va) 27 Maggio “Vesuvio paesaggio di vita e di morte 1972-1990” (Presentazione di Roberto Borghi “Una operazione lunga quasi trent’anni” e Fabrizio Rovesti “Testimonianza di un percorso tutto napoletano”)
UN’OPERAZIONE LUNGA QUASI TRENT’ANNI

È il 1972 e Napoli sta per affrontare l’ennesima speculazione edilizia. I territori ai piedi del Vesuvio corrono il rischio di essere scempiati dalle edificazioni selvagge. Il critico Pierre Restany propone agli artisti di impadronirsi esteticamente del vulcano per trasformarlo in un “parco culturale internazionale”. Giannetto Bravi risponde all’appello inventandosi una memorabile operazione...
Oltre a rappresentare uno dei lavori più ironici, suggestivi e compiuti tra quelli realizzati dall’artista di adozione napoletana, l’“Operazione Vesuvio” si presta ad essere considerata un’efficace metafora del suo intero percorso artistico.
L’idea di “invaligiare” il Vesuvio asportandone progressivamente dei fram-menti per destinarli a diventare dei “fossili materici”, infatti, sembra scaturire da due atteggiamenti che, sebbene con molteplici variazioni, sono alla base di tutte le formule estetiche utilizzate nelle opere successive.
Anzitutto Bravi sembra essere ossessionato dal desiderio di proprietà, cioè, nell’accezione etimologica del termine, di “vicinanza” (1), di contatto con le caratteristiche fondamentali della propria condizione personale, in questo caso emblematizzata dalla propria radice partenopea. Da qui la scelta di inserire dei frammenti di napoletanità, quali sono appunto i reperti vesuviani, in una valigia, ovvero in un contenitore che, permettendo di recare con sé degli oggetti, consente di eludere la distanza da essi, e soprattutto da ciò che essi rappresentano. Bravi esprime, in modo più o meno consapevole, questa volontà di approssimazione alla propria radice anche attraverso l’utilizzo della cartolina illustrata come strumento artistico.
La testimonianza più immediata del proprio paesaggio d’origine, l’immagine fotografica che ne riproduce in termini standardizzati l’aspetto, può in tal modo seguire l’artista nei suoi spostamenti e può confermarne l’appartenenza.
Perché l’ansia di possesso di Bravi cela al proprio interno un bisogno di far parte di una storia, di un territorio, di una condizione di cui essere fino in fondo partecipe.
Questa dialettica di possesso e appartenenza ad uno spazio, ad un territo-rio e ai valori culturali e affettivi di cui è pregno, si inscrive in un peculiare rapporto con il contesto temporale. Bravi non desidera solo permanere in un preciso ambito geografico, delimitato ai suoi estremi dal Vesuvio e dal Golfo di Napoli, ma pretende anche di non fuoriuscire, perlomeno in termini emoti-vi, da quegli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta in cui ha trascorso la propria giovinezza partenopea. Ne consegue l’intenzione di “fossilizzare” lo spazio, di bloccarne lo sviluppo temporale, mantenendolo in uno stato di perenne “età dell’oro”.
Colta in questa prospettiva, l’intera opera di Bravi sembra essere una versione intimistica del progetto di Faust: fermare l’istante, sottrarre il tempo alla sua inarrestabile fuggevolezza. A differenza dell’eroe goethiano, tuttavia, l’artista non compie alcun patto con un interlocutore diabolico, ma si limita a fare dei compromessi con la fuggevolezza stessa. Se il tempo non può cessare di scorrere, almeno può, grazie all’arte, essere immaginato fermo.
Per oltre trent’anni Bravi perpetua quest’illusione realizzando opere impernia-te sull’immobilità temporale dell’immagine, prima attraverso un processo di reiterazione della stessa, poi in seguito alla sua fissazione sulla tela. Il soggetto iconografico di questi lavori è spesso il Vesuvio, “paesaggio di vita e di morte”, come recita il titolo della mostra, ma anche paesaggio sospeso tra vita e morte, emblema di una situazione stabilmente precaria.

(1) dal latino pro, “vicino” e prius, “prima, anzitutto”, quindi “ciò che è anzitutto vicino”

TESTIMONIANZE DI UN PERCORSO TUTTO NAPOLETANO
Diversamente dai grandi emblemi “costruiti” dall’uomo quali monumenti bloccati nel tempo (le piramidi, la torre Eiffel, le Torri gemelle e così via), il Vesuvio rappresenta il simbolo vivo, pulsante di chi attorno vi dimora o ne conosce il fascino. La storia del vulcano parla di periodi di quiete ed altri di fremiti anche violenti; di anni in cui la gente trascorre una serena esistenza ai suoi piedi e di momenti nei quali il grande cono si risveglia seminando finanche la morte. Pompei, Ercolano e Stabia sono sarcofagi che racchiudono le testimonianze del dramma avvenuto nel 79 d.C; e in molti napoletani è ancora vivo il ricordo dell’eruzione del 1944, di tale intensità da dare forma all’attuale cratere centrale.
Chi allora meglio di Giannetto Bravi, artista e geologo vissuto a Napoli, poteva cogliere questo duplice volto del paesaggio naturale, umano e archeologico che cinge il vulcano? La sua attenzione creativa verso i luoghi e la gente del Vesuvio ha un lungo cammino iniziato nel 1969 e tuttora in corso. Ecco quindi una mostra per exempla, con lavori dal 1972 al 1990 che seguono il filo rosso del tema “Vesuvio paesaggio di vita e di morte”.
Dal panorama dato a quello costruito e viceversa.
La propensione all’indagine scientifica di Bravi si fa avanti alle soglie del suo operare artistico. Sono opere di ricerca visiva dipinte con colori industriali le Verifiche presentate nella prima personale alla Galleria Fiamma Vigo di Roma, nel ’67, volte a investigare la relazione spazio-colore e l’impatto sull’attività sensoriale del fruitore. A proposito di questa mostra è interessante richiamare alcune lucide riflessioni esposte da Achille Bonito Oliva nella presentazione: “Stabilire un rapporto aperto con la civiltà tecnologica in cui viviamo significa riconoscere la trasformazione irreversibile della natura in storia, del panorama dato in panorama costruito. Un panorama che dispone all’interno di tutti gli strumenti di vita necessari e per questo si pone come una vegetazione artificiale in continua espansione, secondo il criterio della pura vitalità. L’intervento specialistico dell’artista serve a porre sotto sistemazione formale gli elementi reperiti da questa natura di secondo grado, la quale non si lascia assolutamente contemplare ma agisce come antagonista sull’uomo attraverso l’aggressione di stimoli visivi, sempre più perfezionati dai procedimenti industriali.”.
La posizione di Bravi virerà presto verso una più profonda presa di coscienza del panorama naturale, mentre terrà conto in opere successive (gli assemblaggi di cartoline) delle valenze percettive del panorama costruito. Happe-ning e contestazione concorrono a determinare il clima nel quale Giannetto Bravi con l’amico Gianni Pisani e un gruppo di artisti napoletani fondano nel ’69 la Galleria Inesistente (tale era) e progettano l’occupazione della bocca del vulcano per appiccarvi il fuoco. Ecco una prima operazione collettiva al centro della quale sta il Vesuvio e alla quale partecipa anche il nostro, che con atteggiamento romantico scende in difesa del vulcano nell’arena dell’arte comportamentale. E in tale ambito espressivo lo ritroviamo nel ’71, al milanese Centro Apollinaire, quando propone le Valigie con catene, oggetti veri e propri in metallo al cui interno sono visibili delle catene utili per avvolgere la persona amata, come viene illustrato in una sorta di “istruzione per l’uso” composta da una serie di scatti fotografici realizzati da Mimmo Jodice nel corso di una performance documentativa. “Bravi, da buon romantico, – osserva Pierre Restany introducendo la mostra – ha optato senza equivoco per le gioie profonde della solitudine a due, per i più dolci legami dell’amore ”. Valigette, atteggiamento romantico, dolce legame con il suo vulcano saranno alcune delle componenti nella “Operazione Vesuvio” intrapresa, l’anno seguente, da Giannetto Bravi a fianco di Pierre Restany. A tale proposito scrive il critico francese ventidue anni più tardi nella presentazione della rassegna “Abbiamo tutti una famiglia napoletana” al Museo Ken Damy di Brescia: “Era il 1972, in pieno periodo di land-art, e io proposi ai Napoletani la conversione dei bordi della cima del Vesuvio in un parco culturale internazionale aperto agli artisti di tutto il mondo … siccome questa manifestazione coincideva con le elezioni generali, Giannetto partecipò alla campagna elettorale fasulla che mettemmo in piedi, Gianni Pisani ed io, per dare un’eco più vasta alla mia idea… Credo in effetti che ‘l’Operazione Vesuvio’ ha toccato Giannetto Bravi al cuore della sua sensibilità profonda di napoletano”. Gli esiti visivi dell’iniziativa furono esposti nello spazio napoletano de “Il Centro”.
Nella riassuntiva che presentiamo, testimoniano l’Operazione una valigia numerata (è prevista la numerazione da 1 all’infinito!) quale “Progetto per l’invaligiamento del Vesuvio come rimando nel tempo di fossile materico e preservazione del cono” e alcune stampe fotografiche su carta Fabriano e metallizzata argento e oro. Di nodale importanza, anche per il lavoro successivo, è stato l’invio di cartoline postali della mitica montagna con indicato il luogo preciso in cui il destinatario doveva prelevare un “pezzo di Vesuvio” da riportare in tempi migliori, quando si fosse placata l’avvilente corsa alla speculazione edilizia, per ricostruire il cono vulcanico. “Il ricorso alla cartolina che riproduce il cratere del Vesuvio - scrive Restany - ha costituito nel 1972 il contributo maggiore di Giannetto alla mia opera. Il suo intervento in qualche modo portava avanti il mio progetto”. E ciò avviene per diversi anni, tant’è che in altra occasione Restany ha modo di dire “L’unico che ha voluto andare oltre nell’intervento sul Vesuvio è stato proprio Bravi”. E ancora: “Ho ricevuto durante la prima metà del 1973, e cioè durante sei mesi dopo l’inizio dell’operazione, una serie di cartoline postali del Vesuvio come testimonianza dell’azione prolungata di Bravi su questa natura stessa”. Un’azione, osserva il critico, per certi versi simile a quella del concettuale nippoamericano On Kawara, che per un mese invia a dei corrispondenti la cartolina del luogo nel quale si trova, con l’ora della sua sveglia e l’ora in cui si è addormento.

Scenari astratti di visioni iterate
Cartoline soltanto scritte o con l’aggiunta di “reliquie” di polvere vulcanica; quindi cartoline assemblate, come ritorno al paesaggio “costruito”. Un paesaggio della memoria che si incrementa quando Bravi fa le valigie, quelle personali, per portarsi verso il Nord. “Il primo amore non si scorda mai”: quale titolo migliore poteva trovare, nel ’74, per una personale a Milano?; alla galleria Eros, invitato da Lea Vergine e ancora da Restany, con slancio romantico rilascia cartoline con il timbro del Vesuvio. Sono dello stesso anno “Frammenti” (42 cartoline, col medesimo soggetto, che montate corrugate fanno da sfondo ai cocci di un piatto ricordo di Napoli) e “Amor di Vesuvio”, con cuore rosso in lenci su cartoline. Man mano l’artista dilata i suoi “tappeti di illu-strate”, iterando sulla tela o sul tamburato la stessa immagine, come in “Paesaggio ripetuto n. 3”, raramente cambiando soggetto nello stesso quadro (un esempio è dato da “Paesaggio misto” del ’75). La ripetizione di una medesima immagine conduce alla metamorfosi di una rappresentazione figurativa in un una grande composizione astratta. Non di rado, con l’aggiunta nell’opera di un contenitore trasparente con roccia, terra o altro l’artista sembra voler recuperare il dato reale.
Come è stata letta questa nuova iconografia da alcuni dei maggiori critici del momento? In un dibattito, che ha coinvolto, oltre a Bravi, quattro nomi importanti della cultura artistica (Vicky Alliata, Gillo Dorfles, Pierre Restany e Lea Vergine), tenuto nel luglio del ’76 in occasione della personale alla galleria Milano nel capoluogo lombardo, emergono posizioni piuttosto variegate. Dorfles vede nei quadri di Bravi quella “iterazione allucinante” presente nel lavoro di Andy Wharol, dal quale tuttavia il nostro si differenzia per la carica di “napoletanità” che lo caratterizza: “Bravi è stato influenzato, è stato colpito evidentemente già dalla sua infanzia dallo spettacolo fastoso e, nello stesso tempo, cruento e minaccioso del Vesuvio. Tra le più belle sue composizioni ci sono quelle in cui la riproduzione dell’iterazione costante del cratere del vulcano acquista una perentorietà e una coercitività estremamente suggestiva”, inoltre servendosi di immagini vagamente folkloristiche introduce quell’elemento “di sacralità popolaresca che a Napoli è così vivo perché ha, allo stesso tempo, la radice superstiziosa e la radice cupa del malocchio, dell’esorcismo…”.
Risulta determinante per Dorfles il recupero dell’immagine triviale, dato dalla cartolina “che viene assunta e sussunta ad immagine prototipo, archetipo” e “che ci dà della realtà un’immagine emblematica” ovvero un simbolo popolare cristallizzato più forte di una qualsiasi immagine fotografica che normalmente racchiude valenze più sofisticate.
Restany pensa, invece, che il feticismo di Bravi acquisti progressivamente un’altra dimensione “…una dimensione di oggettivazione: la cartolina postale diventa una specie di promemoria, cioè il feticismo della memoria diventa la memoria del feticismo…nel momento in cui la cartolina non è stata più uno strumento di intervento sulla natura del Vesuvio, inserito in un progetto concettuale collettivo, ma ha acquistato la sua autonomia oggettiva, da questo momento in poi Bravi ha potuto adoperare la cartolina come un elemento quasi modulare, come un mattone”, quindi non si tratterebbe di una struttura ripetitiva, “ ma di una struttura aggiuntiva”. L’aspetto maggiormente interessante nella ricerca di Bravi è per Restany “…la trasformazione del modulo in una struttura architettonica dell’immagine”, in funzione della lotta contro la perdita di sostanza semantica dell’immagine stessa: l’artista cerca “di conservare la memoria di una semantica che se ne va, di una simbologia che sarà veramente la più minacciata dal tempo…”.
Lea Vergine, impiegando una chiave di interpretazione di tipo psicoanalitico, ritiene che le opere di Bravi documentino “un sogno collettivo d’impotenza …la testimonianza di un gran deficit affettivo…”, “ è il lavoro di colui che preserva le tracce; da anni colleziona questi oggetti”. In esse vede, prima ancora che figure, segni resi astratti in base al procedimento di accumulo e di allineazione, in base all’inventario che l’artista fa: “Il divenire ossessivo del suo cerimoniale che, come tutti i cerimoniali, nasce da un’esigenza di difesa, da un’esigenza di preservazione, da misure precauzionali, mi fa pensare al processo di museificazione… Cioè una delle componenti del suo lavoro, mi pare la maniacalità del collezionista.”
Vicky Alliata concorda con l’interpretazione della Vergine relativamente all’analisi sul collezionismo, intendendolo non come accumulo di ricchezza, ma come soluzione alla sconfitta, e da parte dell’adulto a possedere il mondo, o a possedere un amore totale, e da parte di una classe che si sente sfuggire il potere o sente che il potere non lo potrà mai avere. “Non mi interessa che lui ripeta nel quadro la stessa cartolina, questo non lo chiamo collezionare; quello che mi interessa è l’operazione globale che, citando Balzac, è una mania, ossia un piacere passato allo stato di idea. E’ l’uso che fa Bravi di elementi completamente diversi, non solo della cartolina, ma dei reperti del vulcano, delle suppellettili dei salotti, di materiale da vetrinista…, tutti elementi che giornali d’arredamento piccolo borghese ci danno come dei ‘must’, come delle necessità per arredare la nostra vita quotidiana. E’ questo secondo me il collezionismo diluito della piccola borghesia: la vita intesa come surrogato, e tutto il lavoro di Bravi consiste nell’esplicitare proprio questo”.
“All’ombra del Vesuvio”, 1978, è la grande tela su cui sono accostate 72 cartoline con lo stesso soggetto della via partenopea brulicante di gente, la cui messa a fuoco da parte del fruitore avviene soltanto avvicinandosi all’opera una volta superato l’abbacinante smarrimento della visione da lontano. Intense suggestioni provengono, altresì, dalle visioni astratteggianti della serie di grandi tele e tavole, degli anni Ottanta, in cui sono disposte con ossessività cartoline assolutamente uguali di immagini pompeiane, tematica prevalente in questa rassegna. Strutture modulari e tonalità dominanti connotano formalmente i collage: il rosso pompeiano e il nero, che delinea i graziosi “Amorini”, contrassegnano il fregio-simulacro della Casa dei Vettii, così come altre composizioni geometrizzanti con luccicanti cromie determinano affreschi “virtuali”, quali “Venere e Marte” e “Villa dei misteri”, o le molteplici celle de “La morte nel sonno” e del “Calco del cane”.
Ritratti dei grandi e grandi immagini.
Staccandosi per un momento dalla calamita vesuviana, cosa che ripeterà in altre rassegne monotematiche, l’artista, nel 1980, coinvolge i tre critici del dibattito appena ricordato, Dorfles, Restany e Vergine, ed altri quattro
non meno autorevoli esegeti, Guido Ballo, Achille Bonito Oliva, Antonio Del Guercio e Filiberto Menna, nell’operazione “Ritratto-Autoritratto di sette critici” presentata allo Studio Marconi di Milano, in cui espone i volti di tali perso-naggi accompagnati da una loro presunta rivelazione su un segreto personale. Scatta un allarme “quando ci riconosciamo nel ritratto, e nello specchio - scrive Menna -, ma nello stesso tempo avvertiamo che nell’immagine ri-flessa appare qualcosa che non conosciamo perfettamente. Da questo punto di vista il ritratto può essere considerato ‘unheimlich’, perturbante, nel senso indicato da Freud, ossia come un qualcosa che è appunto l’antitesi di ciò che è ‘heimlich’, familiare, abituale. Il Somigliante è in sostanza una maschera ed in quanto tale rinvia a qualcosa che sta al di là dell’apparenza, ad un se-greto che la maschera in parte rivela ed in parte nasconde …Giannetto Bravi sembra porre allo scoperto questo meccanismo. Ma prende una scorciatoia, lasciando al soggetto ritratto il compito di inserire nell’opera il proprio oggetto segreto …un dettaglio che ora sta dentro il ritratto con il compito ambizioso di svelarne l’altra faccia …Ma il luogo del segreto è veramente raggiunto? O non si tratta, ancora, ed inevitabilmente, di una maschera e di un travestimento?”.
Ritratti fotografici, a volte incorniciati, usciti scoloriti dai cassetti dei ricordi familiari, cartoline tipiche di panorami e di tipi napoletani, spesso con scritte, vecchie locandine cinematografiche costituiscono il patrimonio iconografico da cui germina un altro filone d’investigazione dell’artista.
L’immagine, riportata con moderni metodi fotografici su grandi tele, “sottratta al suo contesto preesistente - come scrive Cristina Casero nella presentazio-ne della mostra “Cinema amore mio” nel ’98 allo Spazio Cesare da Sesto -, viene salvata dall’indifferenza cui era altrimenti destinata, per essere isolata, ingrandita, messa in rilievo e tradotta in una nuova veste, in un’altra dimensione, quella specifica dell’arte”. Se nei grandi “tableaux” delle immagini iterate assume particolare significanza l’aspetto estetico-percettivo, in questi lavori viene compiuta un’operazione che conferisce all’immagine recuperata dall’iconografia mercificata l’aura del pezzo unico. Con tale operazione si ha, anche qui, un’ulteriore perdita di contatto con il reale, determinandosi, secondo il pensiero di Jean Baudrillard, l’immagine simulacro attraverso la strategia estetica della seduzione Un incontro esemplare con questa poetica di Bravi si è avuto nella rassegna “Napoli sei bella da morire” del ’98 nello spazio milanese Derbylius, a proposito della quale Lea Vergine scrive: “Il Vesuvio in eruzione - o solo impennacchiato -, il Castel dell’Ovo, Via Partenope, la ragazzina sbrindellata con l’orciuolo, il venditore di grattugie, tutti questi luoghi ormai risibili, stucchevoli, impolverati di compiacimento stantio, riela-borati così come li vediamo alle pareti, hanno una seduzione astuta. Il discorso di Bravi non è così esplicito come sembra. La sua semplicità è complessa. I suoi ricordi apparentemente languidi e appassionati sono una gelida, accurata, paziente simulazione. Qui i sentimenti sono trattati, falsificati, ridotti a ‘quadri’. L’immagine di consumo preziosamente volgare (…) o ingenuamente pubblicitaria (la funicolare vesuviana) comportano quel che si dice in gergo un massimo di ‘effetto’. Perché Bravi fotografa le foto, le cartoline? Perché realtà e passato sono gli argomenti di questo suo lavoro. Dunque il Castel dell’Ovo era là così ed è indiscutibile; ed è stato separato da noi, è stato differito. E questo processo è vissuto con un filo di sofferenza, non è dato come scontato. Si tratta di quel che ha analizzato stupendamente Roland Barthes.
Quindi ciò che Bravi ha perduto – e noi con lui – non è la storia scritta sulla cartolina, né i tipi napoletani, né l’immagine dei maccheroni, ma l’essere di tutto questo, e non solo, è la qualità di tutto questo, che è poi la qualità del tempo. Bravi vuole comunicarci che non si è perduto l’indispensabile ma ciò che abbiamo perso, ciò che non è più, non è sostituibile”.
La mostra di Villa Pomini si chiude cronologicamente con “Paesaggio napoletano”, un gruppo di sei cartoline montate su altrettante stele, e con l’estesa tela “Eremo Hotel”, del ’90, che riprende l’immagine del “Vesuvio impennacchiato” di una vecchia réclame della ferrovia e funicolare Vesuviana.
“Le cartoline si stagliano come icone sacrali su alte aste, ironici monumenti al segno massificato e alla natura divenuta, con Baudrillard, merce di scambio simbolico…”: così Angela Vettese commenta “Paesaggio napoletano”, che colloca nel “polo freddo” dell’arco espressivo di Bravi ripercorso in occasione dell’antologica all’Associazione Artistica Legnanese nel 1991.
In tale circostanza Vettese rileva nell’artista la presenza di due elementi: “da un lato la conoscenza profonda di una cultura locale che, per la sua tipicità, si è posta al mondo come simbolo universale del folklore; dall’altro un’attitudine scientifica al rilevamento, alla verifica, al reperto. Insieme questi due aspetti hanno dato luogo a un’indagine sul territorio sia dell’arte che della vita svolta su un doppio binario, quello caldo della semantica sociale e quello, freddo, sul linguaggio dell’arte. Due filoni strettamente intrecciati, anche se sempre disposti a ripresentarsi anche scissi, che se si è in vena di categorizzare possono far pensare a una crasi di reminiscenze pop e concettuali”.
Concludendo. Giannetto Bravi, e come lui ogni buon napoletano, pur sa-pendo con Plauto che “la fiamma è immediatamente vicina al fuoco”, non può fare a meno di quel Vesuvio: paesaggio assolutamente vitale.