APOLOGIA DELLA CATALOGAZIONE

Strano concetto, quello della catalogazione. A partire dalla storiografia greca e latina, passando attraverso lo spassoso elenco delle donne amate dallo sciupafemmine Don Giovanni pronunciato dal servo Leporello, il procedimento della raccolta, dell’inventio (dunque, etimologicamente, della ricerca di dati), ha costituito il più semplice e spesso più utile strumento per documentare, raccontare, testimoniare. Per portare alla luce ed offrire nel loro irrimediabile darsi, avvenimenti, elementi, dati. Pronti, irrevocabili, già fatti. Proprio in questo risiede, a ben pensarci, la stranezza della concezione stessa del catalogo. Una stranezza che è duplicità, difficoltà a focalizzare il soggetto dell’operazione da una parte o dall’altra, della passività o dell’attività. Colui che cataloga, che realizza un processo di inventario, si fa portavoce di un’azione- non attiva, di una passività che è tale di principio, e che termina solo nel momento in cui il soggetto “firma” la raccolta, ne diventa autore e produttore. A lui la presentazione dei dati, ma a qualcun altro la produzione dei dati stessi, il ruolo attivo vero e proprio.
Giannetto Bravi è un inguaribile catalogatore: è nato come tale, forse fin da quando si occupava di geologia all’università. Per poi (ri)nascere come artista dell’inventio quando le sue storiche valigie hanno cominciato a riempirsi con frammenti del Vesuvio, nella memorabile operazione lanciata dal critico Pierre Restany nel 1972: un’ideale, immensa raccolta di parti del vulcano stesso, che avrebbe dovuto concludersi con una sua futura e utopica ricostruzione. Da allora, l’attività di Bravi è diventata via via quella del raffinato cultore di mercatini, con una fatale e inestinguibile attrazione per le cartoline. La cartolina come metafora ideale del viaggio, certamente. Ma più probabilmente come piccola sede di un ricordo, di un legame, di un vincolo con le persone e con il tempo. Un collante per la memoria e per l’arte, che ne è diventato automaticamente un tassello, una cellula destinata a centuplicarsi, l’atomo di un mosaico maniacale e amorevole che va a comporsi con la ripetizione idealmente infinita di uno stesso soggetto. Nell’artista catalogatore, si annida dunque il germe della doppiezza, dell’ambivalenza: è attivo o passivo colui che raccoglie? Che cerca e riordina il già-presente, in natura o nell’arte? Marcel Duchamp, l’esempio più celebre di questa impostazione, era attivo o passivo nella sua rivoluzione del Ready-Made, che ha segnato un punto di non ritorno nella storia dell’arte occidentale? Le principali operazioni di catalogazione di Giannetto Bravi si sono rivolte alla storia dell’arte passata e contemporanea, al mondo del cinema e del turismo dei lontani anni del boom, e ancora al ritratto di critici con cui ha collaborato in un interessantissimo gioco di autoritratto. In quest’ultimo caso, il ruolo dell’artista era quello della lenta e paziente tessitura di una rete di relazioni, umane prima di tutto (con il critico stesso che si faceva s-oggetto del lavoro), e tecnico-artistiche in secondo luogo. Come a dire, la materia prima era fornita dal soggetto stesso (per questo si parla di un ritratto che sia anche e contemporaneamente auto-ritratto), ma all’artista spettava il compito fondamentale della sua presentazione ed interpretazione. Passivo fino ad un dato limite, attivo nella regia e nel retrogusto dell’operazione. Ma ancor più Catalogatore, Bravi si rivela nelle centinaia di lavori che raccolgono e accostano cartoline con riprodotte le grandi opere del passato. La sua Quadreria d’Arte è innanzitutto un inventario certosino delle opere trovate nei book-shop dei principali musei d’Italia e d’Europa, riprodotte in immagini da vendere. Di nuovo, un’attività in se stessa passiva, che potrebbe tuttavia giustificare il proprio contributo in almeno due modi: da un lato, potrebbe essere per Bravi un omaggio alla storia dell’arte occidentale, un vero e proprio porsi come nani sulle spalle dei giganti che per i filosofi medievali significava ammettere la piccolezza dell’uomo contemporaneo nei confronti dei grandi del passato. Ma non è esattamente questa l’intenzione del nostro artista. D’altro canto, il ricordo potrebbe passare dal Medioevo ad Andy Warhol, sacerdote contemporaneo e rivoluzionario della ricerca dell’immagine conosciuta, popolare, mercificata ed elevata al rango di arte. Ed è innegabile che il riferimento corra all’artista newyorkese anche per l’estetica delle opere di Bravi, facilmente etichettabili come lavori pop per via della loro serialità (che effettivamente affonda in Warhol le proprie radici più dirette), nonché del loro cromatismo d’insieme, artificioso e caramellato. In realtà, nemmeno all’operazione di sublimazione dell’immagine bassa, riconoscibile a livello popolare voluta dalla pop-art, è riconducibile la scelta estetica e lavorativa di Bravi. L’impronta personalissima della sua arte ha un che di intimistico e di nostalgico mescolato in giuste dosi con una sana superficialità estetica. Da un lato l’artista, attraverso il suo processo di inventio, intende farsi custode amorevole di quell’immenso (ma non infinito) serbatoio di storia che è accolto nei nostri poli museali. La sua figura assume davvero i connotati di quella del custode del museo, dell’inserviente per una volta partecipe e attento, convinto della grandezza della propria responsabilità. D’altro lato tuttavia le scelte di Bravi sono senza vergogna di carattere superficialmente estetico, visivo, potremmo dire istintivo. Prive di una cernita che sia dettata da motivazioni di sorta. Egli sembra cercare da un lato rassicurazione e un certo senso di ordine nella restauratio della storia dell’arte, ma tuttavia questo viene subito sdrammatizzato e scompigliato da una sana ironia, priva del retrogusto amaro della pop art. L’arte di Bravi è contemporaneamente un ricordo nostalgico e una fresca risata, un tuffo nel passato di un’Italia che non c’è più e la voglia di non prenderci troppo sul serio, per il presente e per il futuro. Dove finisce la passività del suo procedimento di raccolta della cartolina ready-made, incomincia subito il suo farsi agente nell’incollare, amare, ricordare. In questo sta l’irrimediabile doppiezza di chi, come Bravi, raccoglie e cataloga. Nell’offrire al pubblico la saldezza di un passato riletto e rivisto nell’ottica di custodia e stimolo per il futuro. Per questo, forse, andrebbero ringraziati un po’ più spesso tutti coloro che sono in grado di farlo.

Barbara Meneghel