Caro Giannetto,

ricordi l’ultima mia lettera? Allora mi chiedevo e ti chiedevo perché mai Walter Benjamin avesse voluto conservare nel fondo della borsa da viaggio, poi ritrovata per caso, quasi vuota, al confine tra Spagna e Francia, quel pezzo nero di montagna. Forse voleva dimostrare per via di sineddoche che era possibile rinchiudere il Vulcano in una valigia. Insieme ai suoi ricordi e l’amore per Asja Lacis, che l’aveva stregato in quelle notti napoletane, di cui però conservava solo una fotografia. O forse aveva voluto verificare la bontà di alcune sue osservazioni, concretate ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, uscita nella rivista “Zeitschrift für Sozialforschung”, doveva essere il 1936 o il 1937. Lì aveva scritto pagine bellissime sulla fotografia - e sulla cosiddetta realtà - ricordando che grazie ad essa era ora possibile tenere in camera il golfo di Capri, o le rovine di Pompei, a nostra discrezione. In quei pochi centimetri quadrati, di carta lucida, era liofilizzata la realtà e il nostro sguardo su di essa, con tutto quello che ci portiamo dentro nei nostri occhi. E nei cuori.
Erano i capei d’oro o l’aura sparsi, così cantava Petrarca e poi giocava con le parole, suoni e grafia insieme, evocando in quel venticello divino, oltre i capelli i contorni e l’essenza stessa di Laura, hic et nunc, e la sua laurea poetica, incoronata dal lauro. Ad altra aura pensava Walter, quell’alone sacrale, quella voce unica e irripetibile che promana da un’opera d’arte. Forse gli suggeriva questa interpretazione l’Angelus Novus, dipinto da Klee, che aveva acquistato uni giorno di maggio, era il 1921, a Monaco. Guardate quei capelli, come rotoli di thorà sfilacciati o appunti di Walter, infilati lì per caso e mai più ritrovati.
Queste immagini ora si stanno come riordinando e ritrovano la loro direzione, verso le pendici ed il cratere del Vesuvio, dopo tanto tergiversare e allontanarsi, da un angolo all’altro dell’Europa. Cartoline mai spedite,viaggi mentali, gite virtuali, specchi del desiderio, eccole riunite in 27 fogli, come giri di danza su un unico tema musicale. E come per incanto, mentre le osservo, si desemantizzano e si ricompongono per via di moltiplicazione. Il vulcano, certo, il grande padre, ma poi tanti figli, degeneri. Rivedi le serie e ti sfuggirà l’oggetto, il fine. Non crateri spalancati nella notte, ma grandi fossili di gasteropode, oppure grandi occhi Ciclopi.
Viaggiare nelle stanze, nelle lunghe notti insonni, rileggendo La ginestra di Leopardi. E poi riperdersi sulle pendici del Vesuvio e cercare il varco, l’ombelico del mondo. Vedi, Giannetto, pensare troppo fa male, ma ora chiuderò il grande libro e tutto tornerà a posto, nel lucido ordine del tempo. Ma tu, se ne hai voglia, regalami ancora altre cartoline.

Luino, 18 febbraio 2001 Alberto Brambilla

 

APPUNTI SPARSI (E QUASI AUTOBIOGRAFICI)
PER UNA MOSTRA DI GIANNETTO BRAVI

Non so perché, ma mi hanno affibbiato la nomea di filologo, e non è una bella cosa. Si dice infatti che i filologi siano di solito dei vecchi rincoglioniti che sanno annoiare come pochi. E parlino di cose tanto pesanti quanto futili. Sono capaci di discutere per ore sulla posizione di un punto di domanda o di una virgola.
Ma filologo è anche colui che ama o dovrebbe amare le parole, cioè i testi, i libri. E quindi dovrebbe essere in qualche modo autorizzato a parlare del lavoro di Giannetto Bravi, almeno per le a sezione riguardante i cosiddetti “libri d’artista”. Tanto più se si compone in dittico o trilogia, dunque in una sorta di coerente e coeso macrotesto bi o tripartito, nel segno del Vesuvio, di Pompei e di Capri. In apparenza un inno alla napoletanità o a qualcosa di simile, in sostanza molto altro.Ciò che seguiranno saranno dunque appunti sparsi (più domande che risposte) di un filologo e, ancora di più, di un bibliofilo.
A dire il vero, io non so bene cosa siano i “libri d’artista”, etichetta che vuol dire tutto e niente. Proverò tuttavia a cercare di capire qualcosa insieme a voi, con qualche riferimento che sprofonda persino nell’antichità, come del resto invita a fare l’origine iconografica e culturale delle opere di Bravi, che non di rado ri-utilizza reperti del mondo classico.

Artigiani - parola che ha la stessa radice d’artista - erano coloro che grazie alla loro abilità tecnica preparavano il supporto su cui scrivere; volume, ad esempio, significava in origine qualcosa di arrotolato; e si arrotolavano i papiri, ossia gli antenati dei libri. Dai papiri ai codici manoscritti. Codice deriva da caudicem, e significava pezzo d’albero, ossia tavoletta di legno, su cui si scriveva, appunto. Il codex era dunque, un tempo, composto da una raccolta di tavolette. Stiamo già descrivendo una “forma libro” in evoluzione: libri da srotolare, quasi oggetti-libro, non appena dalla scrittura, dalla superficie (ricca tuttavia di ineguagliabili profondità) si passi al supporto.
Allevatori ed artigiani erano coloro che producevano le pergamene o cartapecora, e infatti ci voleva un gregge d’armenti per costruire fisicamente un libro. Ma artigiani erano i copisti, i calligrafi e i miniaturisti. I codici miniati sono forse i primi consapevoli libri d’artista, almeno secondo il nostro punto di vista, soggettivo ed individualista, figlio del romanticismo. Come avrete notato ho parlato solo della struttura esterna, della fisicità del libro (di cui anche la grafia, la scrittura, è parte integrante), non del contenuto ideologico e concettuale.

Ma se radicalizziamo le definizioni – che invece volevo rimanessero suggestioni – artigiani-artisti sono i tipografi, i rilegatori, gli illustratori, così come in qualche modo – li ho lasciati apposta per ultimo- gli scrittori che lavorano e plasmano la lingua che poi riversano nei libri. Artigiani sono ovviamente i pittori, gli scultori, i fotografi, e tutti quelli che oggi – Babilonia dei linguaggi e dei segni- definiamo artisti. Poi ci sono gli artigiani del virtuale, che alla mano hanno sostituito una protesi plastica, il mouse.

Sono queste delle provocazioni che hanno uno scopo puramente dimostrativo. Discutere intorno ai libri d’artista è dunque abbastanza complesso; di norma oggi se ne parla a proposito di libri illustrati da xilografie, incisioni, acqueforti, oppure interventi diretti, collages ecc, dove c’è comunque una presenza ed un rapporto tra testo scritto e figura, a volte paritetico, a volte squilibrato in una direzione.
Ma anche qui le cose si complicano. Erano in effetti già da sempre complicate, se per esempio pensiamo ai carmina figurata, che peraltro partono dagli antichi greci per arrivare ai calligrammes e ad altre forme più sofisticate rese possibili dalle macchine da scrivere e dai PC. Qui la struttura è anche forma, crea con se stessa figure. E di mezzo c’è la rivoluzione tipografica dei futuristi, il libro che diventa illeggibile, ossia ombra e corpo di se stesso, oggetto-libro.

E si arriva così agli esperimenti a noi più vicini, indefinibili nella loro varietà, dove tuttavia appare chiara una tendenza: il testo scritto nella lingua tradizionale con i consueti caratteri tipografici tende a scomparire, o comunque non rimanda a un contenuto narrativo, ma ad una forma, ad un ricordo, un eco, in cui si ricompongono gli antichi gesti dello srotolare, dello sfogliare, del prendere tra le mani… 

Quella di Giannetto è appunto un’esperienza speciale, che merita una qualche attenzione. I libri suoi sono per molti versi atipici. Non sono pezzi unici, ma sono prodotti in pochissime copie, sette, che è un numero magico, esoterico.
Hanno tuttavia la forma esterna del libro, ne conservano lo scheletro, l’osso piatto della copertina, la spina dorsale dell’ampia costa; mantengono la riconoscibilità dei singoli fogli: sono libri dunque sfogliabili a tutti gli effetti; vi è una parvenza di successione cronologica, vi è un testo introduttivo, una dedica, un editore, un colophon. Non è un caso, Giannetto ama i libri, ha lavorato a lungo per costruire dei libri tradizionali; si è innamorato dell’involucro esterno, della carta, dei materiali, insomma della parvenza libro, che dunque in qualche modo rispetta.

Dico così perché se guardiamo all’interno non esistono le parole, e se ci sono è un caso, sono lacerti tendinei, frammenti appendici didascaliche di illustrazioni di luoghi speciali, appunto il Vesuvio, Pompei, Capri.
Che libro è mai questo non – libro? Se non conoscessi l’intelligenza ironica di Giannetto, lo definirei un Calepone, o, meglio, se pensiamo alle dimensioni un Bigiamone una specie di bigino, una Treccanina partenopea per scolaretti svogliati (e d’altronde Giannettino non è un personaggio di Collodi, un cugino di Pinocchio?).

Pechè Bigino? Perché in qualche modo consente di avvicinarsi al cuore della poetica di Bravi, ad una sua sintesi. Infatti esso racchiude una serie di tavole (o fogli) – adeguatamente firmati e dunque autenticati- che ripropongono “in miniatura” diversi lavori che di solito hanno maggiore dimensione. Il gioco è però identico.

Il tripolino - napoletano Giannetto recupera ovunque immagini normali o addirittura stereotipi e li moltiplica assecondando la loro insita voglia di serialità. Li affratella, porta a compimento la loro fine, la accumulazione illimitata, che porterà l’Occidente alla vera ed ultima fine. Dunque nulla di più banale, uniforme, perfino stucchevole.

E invece no. L’occhio umano, non ancora completamente sclerotizzato - forse guidato da una memoria o da strani processi cerebrali – come allettato da trappole ottiche ridefinisce, rigenera, ricerca quei vuoti semantici, quelle serie che dovrebbero produrre solo monotonia. E con il cervello o l’emozione o il sentimento o la cultura - o tutto insieme riparte per un nuovo viaggio conoscitivo a partire da quella zavorra figurativa, ora riciclata e rintestata nella discarica dei nostri occhi.

Tutto si rinnova nulla si distrugge. Il libro, la pagina, si ri-anima, acquista letteralmente vita. Gli scheletri si ricompongono, gli zombi camminano, alle falde del Vesuvio si intrecciano nuove storie e nuove vite. Se siano migliori o peggiori di quelle reali, non tocca me dirlo. Forse a voi.

Alberto Brambilla 
Università di Padova

29 maggio 2003

 

Viaggiatore del terzo millennio

A cosa pensavano i viaggiatori che percorrevano da nord a sud l’Europa, a bordo di carrozze e diligenze, più o meno comode? Cosa cercavano i primi turisti, ricchi studenti sfaccendati, nobili ed aristocratici che facevano come la spola da ovest ad est del vecchio continente? Nei loro pellegrinaggi laici non cercavano più la reliquia di San Martino, la mano benedicente della Vergine di Pompei, la calda protezione di Pietro, la benedizione di San Giacomo. No, aspiravano ad altro. Fosse il grand o il petit Tour quello che si accingevano a fare, era soprattutto la luce tersa che agognavano ed il caldo ed il cielo senza nuvole del sud.
Opera d’arte il paesaggio, modellato e costruito dal tempo e dalla fatica dell’uomo, opere d’arte le città, ancora chiuse nelle loro mura, che custodivano chiese e palazzi, al cui interno erano depositati tesori raccolti da millenni. Non era ancora la sindrome di Stendhal, ma quella vertigine che a volte, improvvisa, li avvolgeva fino a strozzare il respiro e ad annebbiare la vista era certo qualcosa di simile. Lo sguardo non riusciva a sostenere tali e tante bellezze che come sciame d’api avvolgevano il capo, producendo un insopportabile ronzio alle orecchie, e poi era il vuoto, la vertigine che succhiava la conoscenza. Ma era tuttavia impossibile mantenere la distanza, impossibile non saziarsi a sì lauta mensa. E il viaggio pareva non avere fine. Dopo Pisa, Firenze, Roma, Napoli e giù fino a Palermo, con diverse e tentacolari tenta-zioni verso altre cittadine, che racchiudevano altrettante gioie nei forzieri. E poi il percorso all’inverso, per un ritorno che si cercava in ogni modo di prorogare, perché c’era ancora il mondo da osservare, sotto i cieli d’Italia, o di Spagna, o di Francia.
La retina era sottoposta a sforzi intollerabili ed anche la memoria aveva bisogno d’appigli, appunti, frammenti di diario, impressioni spesso rovesciate in lettere vergate di fretta, tra un viaggio e l’altro, al lume di candela, sui tavolacci delle locande ancora impregnati di vino e ragù. Era un’esperienza memorabile, appunto. E dunque occorreva in ogni modo allontanare la pallida dea della dimenticanza, vincere la fatica dell’immagazzinare e depositare nel granaio della memoria. Negli spostamenti, c’era per fortuna il paesaggio ad accompagnare il passeggero, ad accarezzargli lo sguardo, all’ombra fre-sca delle colline, oppure al profumo tonificante della salsedine che saliva dal mare. Ma c’era comunque troppo da osservare, da ricordare, da annotare, da disegnare, se si aveva polso fermo e mano mobile e senza nervi. Quando la nebbia avrebbe avvolto a Londra o ad Amsterdam il facoltoso avvocato o il medico affermato, davanti al caminetto sarebbe stato bello ricordare quei giorni meravigliosi, mentre i cani dormivano al calduccio e la cuoca preparava la cena. (Ma ora, qui, in questa pinacoteca del Palazzo d’Urbino, in un pomeriggio caldo e luminoso, quale preda catturare, quale quadro scegliere, quale particolare selezionare?)

Sia benedetta e santificata Madonna Fotografia, che catturando e ingannando la luce era in grado di riprodurre la realtà! Allora tutto sarebbe stato più facile, e le vestigia e le mirabili architetture, e le opere d’arte tutte, i quadri, le sculture, gli argenti, i paramenti, le pietre dure… ogni cosa sarebbe stato possibile riprodurre, persino nei particolari. Meravigliose duplicazioni a ridotta dimensione, ma a tiratura illimitata: si sarebbero accumulate nelle valigie e poi sparse nelle ville aristocratiche e poi nelle più modeste magioni borghesi, e infine nelle abitazioni degli impiegati e persino nelle case umide e strette d’operai. Adesso le puoi ammirare nelle birrerie di Stoccolma; puoi rigirarti tra le mani un Leonardo formato cartolina, ma è lo stesso che vendono alla sta-zione di Zurigo, all’aeroporto di New York, all’internet@café di Pechino, pro-vare per credere. Forza della democrazia, del progresso economico che migliora le esistenze! Ma poi irrompono le masse come appiccicosa marmellata, si va verso i tempi moderni anzi modernissimi; a quell’omogenizzazione di esperienze palatali-gustative e visive certo, s’intende, che rendono ogni cosa disperatamente uguale, appunto vita in cartolina, déjà vu. Caduta d’aureola, certo, direbbe Walter, nell’epoca in cui tutto è riproducibile e niente è indivi-duale. Perdita di identità, secondo alcuni; inevitabile legge e forza inarrestabile dell’economia, secondo altri. E dunque un mondo migliore, quasi perfetto, nella mente e nella mano, basta un lieve movimento del mouse.

Viaggiatore del terzo millennio, come disceso da un’ altra galassia, Giannetto Bravi continua il suo percorso, su strade polverose e vecchie diligenze. E da decenni prosegue con rigoroso ed imperterrito metodo, a raccogliere e a classificare, alla stessa maniera di Lord Blake o di Van Loos o di Karl Loewe. E poi Giannetto, da buon cinese, anzi, da napoletano verace ha imparato a clonare. Non solo gli spazi malinconici, e poetici di un tempo, vecchi locali di barberia, cinema degli anni quaranta o cinquanta, pieni di fumo e brillantina… Giannetto si è nu poco allargato, ed è diventato attore e regista di un vero programma (digitale!) su supporto cartaceo: enciclopedia dell’arte in cartolina? Camera delle meraviglie, Museo dei Musei, Arca di Noè dell’esperienza artistica, Canone percettivo, chissà…
Performance, gesto dimostrativo ad alto tasso simbolico? Nostalgia del passato? Nulla di tutto questo, anzi. Piuttosto un piccolo grande esperimento nel laboratorio sotto casa. Sottoponendo le stanche e lise icone ad un processo forzato di collisione riproduttiva, è come se ne fosse alterata la sequenza del DNA estetico, con sorprendenti esiti. Rigeneranti, paradossalmente. La clo-nazione impazza e poi precipita in una sorta di frullatore, da cui scaturiscono nuove ed inedite esperienze ottiche. Sei Leonardi sei, insomma, possono costruire un paesaggio desertico, o altro, a seconda degli imponderabili esiti. Ma all’ombra rassicurante delle cornici i medesimi processi investono i Raffaello, i Giorgione, i Tiziano, i Rembrandt… Moltiplicazioni e impatti e intersezioni rivelano dimensioni…
In queste sale adeguatamente prestigiose, dunque, non si celebra solo un ironico omaggio, nel tempo e nello spazio, al Genio della Pittura. Qui si crea-no inediti linguaggi, insospettabili esperienze visive per il terzo o il quarto millennio.

Alberto Brambilla