Lombardia Oggi - Domenica 4 ottobre 1998 

Ciak, si gira! Nel piccolo ma funzionale ambiente dello Spazio Cesare da Sesto, a Sesto Calende, approda Giannetto Bravi con una personale intitolata “Cinema amore mio”. Bravi è l’autore significativo e originale che si avvale della fotografia per riproporre immagini che scandagliano la memoria collettiva. La sua tecnica consiste nel rifotografare una serie di cartoline e di stampe per riproporle su tele di grande formato, accentuando o attenuando certi particolari di colore o di linea oppure evidenziando i primi piani, sino ad arrivare a una situazione paradigmatica di un vissuto che, comune a molti, finisce per assumere connotazioni individuali, ammantandosi di emozioni e sentimenti. I fotogrammi solitamente proposti da Bravi sono però frammenti isolati l’uno dall’altro e non hanno fra loro alcuna continuità proprio per evitare il rischio di un racconto che diverrebbe anacronistico. Al centro di questa nuova proposta dell’artista c’è il mondo del cinema con le sue finzioni, le sue storie, i suoi personaggi che hanno rappresentato, con le loro vicende destinate a fiorire nell’immaginario collettivo, un grande momento di aggregazione sociale, passando da una realtà virtuale al patrimonio dei cuori.

Ettore Ceriani

 

La Prealpina – Cultura e Spettacoli – Venerdì 2 Giugno 2000

Paesaggi di vita e di morte visti con gli occhi di GIANNETTO BRAVI l’uomo che “scoprì” il Vesuvio

E’ un momento particolare per Giannetto Bravi, uno degli artisti più singolari del panorama varesino, ma anche uno dei più impegnati e ricchi di spessore umano. Un dato che non guasta in un autore la cui espressività, certo non facile da intendersi per le composite valenze che raccoglie oltre l’apparente semplicità delle immagini, è sempre sottilmente legata alla memoria, a qualcosa che tutti ci portiamo appresso, più o meno consapevolmente, che si intrufola magmaticamente nella nostra vita, che condiziona nascostamente il presente. Cosa sarebbe un uomo senza memoria? L’uomo è come una pianta, osserva un noto filosofo, che vive nel presente ma ha le radici che affondano nel passato, l’humus nel quale si è sviluppato il seme originario. Potrebbe mai vivere una pianta senza radici?
Due mostre e un libro in poco tempo, il tutto realizzato con quel garbo, quell’ironia, quella sottile capacità di giocare con gli avvenimenti che contraddistinguono la sua fertile e ingegnosa creatività.
Ha in corso una esposizione a Bergamo, presso la Galleria Vanna Casati, raccolta sotto il titolo di “Douce France” che rammenta una nota canzone in voga alcuni decenni or sono e cantata, se non andiamo errati, dalla calda voce di Charles Trenet, Già questo introduce un’atmosfera di forti connotazioni sentimentali. Si tratta di una serie di foto recuperate con la consueta ed amorevole perizia dalla dimenticanza dei più. Cartoline integrate da frasi ad effetto, stampate od aggiunte a mano, che gli innamorati solevano scambiarsi agli inizi del secolo che se ne sta andando. Sguardi languidi, pose di circostanza, frasi ad effetto, vestiti fin troppo leccati, cuori e fiori dappertutto. Tanto artificio ed ostentazione da farli sembrare fuori dal tempo, assolutamente “demodé”. Giannetto le riscopre, le isola, le enfatizza sulla tela in un meticoloso lavoro di trasporto che ne intensifica la qualità, trasformandole in immagini emblematiche, assolute. Offre loro nuove circostanze di visibilità, cercando di farle rivivere per quello che hanno rappresentato, senza manomissioni di sorta, limitandosi a rivalutare quanto l’incedere del tempo e l’incuria degli uomini avevano sepolto.
A Villa Pomini di Castellanza, curata da Fabrizio Rovesti e con una introduzione di Roberto Borghi, è stata invece inaugurata una composita retrospettiva della sua ormai lunga e coerente ricerca, nata e continuata sotto il segno della terra che per primo lo ha accolto, che con il suo paesaggio, i suoi colori, la sua arguta vitalità ha fatto emergere la sua limpida vena ispirativa e che ogni tanto riaffiora, con afflati nostalgici, fra le pieghe del suo lavoro. “Vesuvio, paesaggio di vita e di morte” è il titolo che riassume la mostra castellanzese, incentrata su una selezione di opere datate dal 1972 al 1990. E’ una rassegna lineare e pulita, bella da vedere anche sotto il profilo prettamente pittorico e compositivo, dalla quale affiora una napoletanità sinceramente vissuta e stimolante. Il vulcano partenopeo segnato fortemente il suo modo di intendere e fare arte, quando ancora era agli inizi e stava cercando un personale modo di esprimersi. Le prime esposizioni risalgono al 1967. Nel ’72 il critico Pierre Restany lancia l’”Operazione Vesuvio”. Napoli è soggetta all’ennesimo tentativo di speculazione edilizia ed i territori ai piedi del Vesuvio rischiano di essere irreparabilmente compromessi. Restany propone agli operatori d’arte di impadronirsi simbolicamente del vulcano per trasformarlo in un “parco culturale internazionale” aperto agli artisti di tutto il mondo. Bravi risponde da par suo, inventando una operazione che durerà a lungo. Probabilmente ancora oggi, considerata la sua insistenza operativa sull’immagine del Vesuvio. Propone l’”invaligiamento del Vesuvio come rimando nel tempo di fossile materico e preservazione del cono”. Il numero delle valigie va dall’uno all’infinito. Seguono stampe fotografiche su carta “Fabriano”, metallizzate in oro e argento, quasi a voler isolare nella purezza e rafforzare nel metallo le immagini proposte. L’iniziativa continua poi con l’invio di cartoline postali della montagna con indicato il luogo preciso in cui il destinatario deve prelevare un frammento di Vesuvio da riportare sul luogo in tempi migliori, una volta terminata la speculazione edilizia, per ricostruire il cono vulcanico. Infine, quando Bravi si sposta a Saronno, il Vesuvio si trasforma in un paesaggio della memoria, assumendo la dimensione struggente della lontananza. Ma nella sua prima mostra a Milano, alla Galleria Eros (’74), emblematicamente intitolata “Il primo amore non si scorda mai”, il nostro rilascia ancora cartoline con il timbro del Vesuvio e in “Frammenti” dello stesso anno, come sottolinea scrupolosamente Rovesti, 42 cartoline con il medesimo soggetto (ovviamente il Vesuvio) vengono montate, increspate, in modo seriale, fungendo da sfondo ai cocci di un piatto ricordo di Napoli. La montagna partenopea rimarrà nell’opera di Bravi anche negli anni a seguire, come una traccia indelebile della sua ricerca, un saldo ancoraggio della sua poetica, che, tra rimandi naturalistici tende ad assumere connotazioni romantiche. Non a caso la mostra a Villa Pomini si conclude con “Paesaggio napoletano”, un gruppo di sei cartoline montate su altrettanti steli. Siamo ormai nel paesaggio costruito e l’assemblaggio in sequenze di una medesima immagine convenzionale, riconducibile ad una esperienza comune, tende attraverso la persistenza evocativa ad uscire dal dato stretto della realtà, assunta a simbolo, per trasformarsi in cadenzata composizione di valenza astratta, a volte angosciosamente calma, altre volte impassibilmente pressante ed inquieta. Il particolare analitico della rappresentazione si fonde così nell’insieme ed entra in rapporto dialettico con il sentimento che lo circostanzia, originando una duplice valenza di tempi: di narrazione e di sospensione, di continuità e di frammentazione. L’arsenale iconografiche che Giannetto presenta è basso, quotidiano, di pretta assunzione popolare e si rivela, sotto lo sguardo insistito, non tanto come un’immagine offerta dall’artista, non tanto come il reale oggetto della sua opera, tanto come un canale, una porta mentale che, attraversata, avvia altrove, ad una specie di riconoscimento in chiave personale delle primigenie radici. Un recupero ed un distinguo di identità nella caoticità funzionale del mondo. L’abbondanza degli oggetti rapidamente sospinti verso il logoramento ed il disuso, la moltiplicazione delle specializzazioni e delle funzioni contigue, l’affollamento di immagini e segnali somiglianti, coinvolgono l’arte (e l’artista) nella compresenza caotica dei linguaggi, inclusi quelli visivi, attraverso i quali il mondo parla e comunica, accentuando la loro corsa verso il disuso, verso la trasformazione in rifiuti o scarti. L’intervento di Bravi sta nel forzare il caos dei linguaggi, adottandone uno comune ai più, recuperando e ristrutturando nel contempo, attraverso una diversa riproposizione, gli oggetti indeboliti (disusati, svuotati, scartati) sino a trasformarli in oggetti forti che esorcizzano la caduta del simbolo (e di tutto quanto vi sta dietro) che si usura, si consuma facilmente, decadendo fino all’orlo della scomparizione o della consuetudine. Quando l’artista se ne impossessa, gli ridà possibilità comunicative, lo rafforza nel suo significato originario, lo recupera alla sua primitiva nozione, esaltandone l’incidenza a livello personale e la persistenza nel sentimento comune. Per arrivare a ciò occorre però possedere una nitida percezione nel senso popolare, la capacità di percepire il soggetto in tutta la sua rappresentatività, una cristallina onestà intellettuale nel riproporlo nella sua più elementare potenzialità. Caratteristiche che Bravi puntualmente possiede ed onora con le sue opere.
Ed infine, il libro. Lo scorso 10 maggio, presso la libreria “Art Book” di Milano, Bravi ha presentato il libro d’artista “Capri – in 70 paesaggi ripetuti”. Il volume, in sette copie firmate in tutte le pagine più una copia di autore, è edito da Pulcino Elefante, consta di 146 pagine in cartoncino speciale ed è costituito da 420 cartoline con 70 soggetti diversi. Giannetto non è nuovo a fatiche del genere. In passato ne ha già pubblicati altri: “The Vesuvio into my heart”, esemplare unico (’84); “My life. It is not possible to read”, esemplare unico (’94); “Apriscatole”, in 6 esemplari (’96); “Il cinema del barbiere” in 30 esemplari (’97); “Operazione Vesuvio”, in 29 esemplari (’98). Quest’ultimo però per dimensione, impegno di scelte e di costruzione appare come qualcosa di esclusivo, tanto che una copia è già stata prontamente prenotata da un museo ungherese, lo “Szent Istvàn Kiràly Muzeum Szèkesfehèrbàr”. Con queste pubblicazioni l’artista sembra voler ritornare al primo periodo della storia del libro, quando ogni volume, per quanto ripetuto, era in pratica un esemplare unico, un grande sforzo formale e di pensiero. La parola “libro” indica inoltre la parte interna della corteccia delle piante (liber) che, disseccata, serviva agli antichi come primitiva materia scrittoria. Ed il viaggio che Bravi compie all’interno dell’isola, attraverso un lavoro analitico di selezione delle immagini, sembra riproporre, sotto la finzione di luoghi codificati ed ormai consolidati alla fama, un percorso a ritroso nel tempo. Un percorso interiore, che va oltre la realtà specifica di ogni singola immagine, che sa ammantarsi di un vissuto personale. Dietro ogni cartolina c’è infatti una storia, un accadimento, la vivacità della gente, una situazione emblematica, un momento infinitesimale della propria esistenza che si aggrappa disperatamente al ricordo. In quest’ultima pubblicazione Bravi ritorna al mito di Capri che ha segnato la sua gioventù, “… un mondo irreale: sembra di stare su uno scoglio, il che dà un senso di isolamento e di lievitazione “. La selezione delle cartoline è rigorosa, quasi una revisione genetica per arrivare all’immagine ideale, perfetta, sospesa in una stasi enigmatica, a volte addirittura metafisica. Nell’immaginario collettivo Capri continua a essere qualcosa di fruibile, di codificato, da consumare in fretta, come in un rito profano. Per Bravi è un’operazione mentale, più complessa, dai numerevoli risvolti speculativi che richiama la consapevolezza di ciascuno, nel ritrovamento di un’antica radice, all’essenza stessa della vita. Così, un altro frammento si è aggiunto alla grande valigia del cuore che Giannetto si porta appresso.

Ettore Ceriani

a Castellanza, Villa Pomini, Via Don Testori 14; fino al 18/6;
orari: martedì-venerdì 17-19, sabato 15-19, domenica 10-12 e 15-19. Catalogo artista.

 

Il Rinascimento non è un’epoca, ma un temperamento

Viviamo solo per scoprire nuova
bellezza. Tutto il resto è una
forma d’attesa.

Kahlil Gibran

L’Arte, pur prendendo continuamente spunto dalla realtà, non si confonde mai con la cronaca dei giorni (anche quando è racconto), poiché agisce ad un livello più alto della quotidianità, arrivando a fissare un giudizio, spesso misconosciuto al momento, che va al di là del tempo, quasi a voler anticipare l’essenza più autentica di ogni vicenda e di ogni epoca.
Ciò succede perché l’artista, nella ostinata ricerca di una bellezza suprema, che sia totale e compiuta, matura dentro di sé una prioritaria esigenza di ri-spetto della memoria, con la quale si confronta ripetutamente.
La memoria è la grande assente di questi ultimi decenni nel campo dell’Arte anche se ciò è in forte contraddizione con le scoperte tecnologiche che hanno portato alle potentissime memorie informatiche.
Quando parliamo di memoria non ci riferiamo ad un insieme - per quanto vasto - di conoscenze, ma alla piena cognizione dell’Essere e del suo agire nell’ambito della storia, di cui l’Arte è parte integrante, in quanto ne evidenzia incessantemente, dagli albori ai giorni nostri, le aspirazioni. Ezra Pound interpreta bene questo spirito quando afferma: “Il Rinascimento non è un’epoca, ma un temperamento”. Da critico illuminato ben comprende come l’arte, in quanto vicenda dello spirito, non possa essere irreggimentata a livello temporale e pone a chi l’affronta con tale consapevolezza la necessità di un rinnovamento che non precluda mai un richiamo alle radici, sia pure latente. Tant’è che poi commenta: “Il valore di ogni cosa è offerto dall’eredità culturale”.

Giannetto Bravi ha iniziato ad interessarsi di cartoline con una certa assidui-tà verso la fine degli anni Settanta. Una attrazione dettata da motivi diversi: necessità di documentazione visiva, curiosità, possibilità di riflettere anche a posteriori attorno ad una immagine e di indagare un artista, una forma, un colore. Scelte mai occasionali, effettuate sempre con un gusto raffinato, dettate da un lucido senso critico e da una profonda considerazione artistico culturale del reperto iconografico. Sino al punto che in lui matura l’idea di farlo diventare materia viva della sua espressione.
Una operazione non semplice poiché la scelta, l’accostamento, la stessa dimensione sequenziale vengono di volta in volta ponderate secondo valori che non rispondono più al singolo segmento cartaceo, ma tengono conto di una polifonia complessiva, in quanto l’insieme, pur non perdendo (anzi, rafforzando nel contesto) l’identità della singola riproduzione, diventa, sotto il profilo compositivo, un corpo ‘altro’, nel quale un segno, un particolare, una tonalità, una piccola stesura, si trasformano, nella continua riproposizione, in un nuovo, autonomo valore pittorico.
Il fatto è che l’artista prende atto dell’usura che l’immagine subisce (che può essere data tanto dalla mancanza di una diffusa conoscenza, quanto da una sovraesposizione che la riduce a consuetudine) e tende a recuperarla, ridandole possibilità comunicative, ma anche offrendo alla memoria uno specifico ed attuale valore di contesto.
E’ così che il manufatto (inteso nel senso ingegnoso del termine) acquista un suo ritmo (poiché passa dalla stasi dell’immagine riprodotta al moto della composizione), una sua dimensione spaziale, una propria valenza narrativa ed un suo particolare assillo emotivo. Nel contempo, l’immagine riportata sulla cartolina, sostanzialmente fine a se stessa, passa dal registro figurativo ad una logica tendenzialmente astratto-speculativa, prestandosi ad una proiezio-ne mentale che usufruisce della complicità di un tempo elastico (l’emersione dall’oblio) e che si apre a innumerevoli rapporti visivi e psichici.
La mostra che poi Giannetto Bravi allestisce al Museo di Capodimonte si arricchisce di nuove motivazioni ed ulteriori singolarità espressive.
A nostro giudizio, la suddivisione fra paesaggi, nature morte e ritratti è innanzitutto di ordine mentale poiché l’artista tenta, riuscendoci, di produrre una continuità di tematica che vada oltre le singole datazioni, i vari registri, le diverse chiavi stilistiche, per proporre un livello di realtà più organico di quello del singolo frammento. E’ come se l’artista indagasse il composito deposito d’arte internazionale per arrivare ad un’immagine assoluta. Un’immagine che si è formata lentamente, come una stalattite, apporto dopo apporto.
E’ proprio l’insieme, composto a tessere, che dilata la prospettiva globale dei paesaggi, trasformando i particolari di ogni evidenza in un armonico spartito nel quale risuona la complessità dei fenomeni naturalistici e la loro immanenza. Le nature morte hanno invece l’impronta del vivere quotidiano, circostanziando momenti, forme, situazioni e stabilendo una serie di relazioni e riferimenti, interni ed esterni, che rendono visiva e concreta una compatta interdipendenza fra gli esseri e le cose.
I ritratti e gli autoritratti acquistano invece, nel loro continuo succedersi, una valenza collettiva. Qui non vi è più il personaggio e la sua storia personale, ma è la vicenda umana, nel suo complesso, a scandire tensivamente i passi della vita ed i silenzi della morte.
Ci sarebbe infine da chiedersi perché siano state scelte icone così diverse ed a quale logica di ricerca appartengono. Ma qui non c’è nulla da spiegare. Ed il poeta (sempre Gibran) lo rende bene in un suo aforisma: “L’ispirazione canterà sempre; l’ispirazione canta, non spiega”.

Ettore Ceriani