Lombardia Oggi - Domenica 10 luglio 1994

“Abbiamo tutti una famiglia napoletana”. Con queste parole il noto critico militante Pierre Restany, ci immerge “tout court” nello spirito della mostra che Giannetto Bravi ha in corso al museo Ken Damy di Brescia. Infatti, i soggetti rappresentati in prevalenza di terra partenopea, come il loro autore, “ci sembrano stranamente familiari. Dopo tutto potrebbero essere i nostri! Così come le vecchie cartoline potrebbero esserci state spedite personalmente ... Questi ricordi diventano nostri”.
L’iter artistico di Bravi, da anni abitante a Cislago, ci è noto attraverso l’antologica presentata con notevole successo tre anni fa all’Associazione Artistica di Legnano: dai quadri geometrici dipinti con colori industriali per verificare le relazioni tra spazio e colore, all’operazione Vesuvio a cavallo degli anni Sessanta-Settanta che prevedeva interventi sul vulcano, (Bravi è laureato in geologia) e che, tra l’altro ha comportato l’invio di cartoline quali oggetti-simbolo di un’operazione più vasta, similmente alle valigette di ferro con lunghe catene del ‘71; e poi gli assemblages geometrici, fitti di cartoline del Vesuvio o di ritratti fotografici, le “gabbie” che intrappolano piccoli oggetti o fotografie, le gigantografie su tela. Di questo percorso artistico, che come ha scritto Angela Vettese, si svolge “su un doppio binario, quello caldo della semantica sociale e quello, freddo, dell’indagine sul linguaggio dell’arte”, la mostra di Brescia raggruppa i lavori del triennio ‘91-’93 che rimandano ad immagini fotografiche e di cartoline, sottilmente ricreate in tre filoni che occupano altrettante sale del Ken Damy, un raro esempio a livello internazionale di museo dedicato alla fotografia e alle opere di artisti che fanno uso di tecniche fotografiche.
Nella serie colorita dei costumi napoletani (“i venditori di scope che mangiano i maccheroni”, “‘e cipollare”, “o mastrillo e ‘a gratta caso”, ecc.), riproduzioni di cartoline del folclore partenopeo su tele di grandi dimensioni, la creazione di Giannetto Bravi diventa gesto d’amore dell’artista verso la sua terra capace di trasformare semplici ricordi rinchiusi in un cassetto, in dilatate immagini d’arte di elevato sentimento. Vi sono poi le 50 fotografie del “la memoria riappropriata”, prese dall’album di famiglia, incorniciate e disposte sulla parete in sapienti geometrie che racchiudono affetti, momenti e luoghi dell’età giovanile dell’artista. Infine, nel tema “ritratti dei ritratti”, le fotografie incorniciate con i nomi delle persone scritti sui passe-partout (“Carlotta e Giannetto”, “Signora Mary Lathstatter e barman”, ecc.), sono riportate ingrandite su tela dando in tal modo - come scrive Restany - sacralità all’immagine e rendendola allo stesso tempo familiare. L’artista è così, “un venditore di ricordi che la nostra memoria registra facendoli divenire propri”. 

Fabrizio Rovesti

 

1995 - Milano - Museo Ken Damy - La Memoria Riappropriata

"... piccola aloia ti avevo accanto con il cuore in gola ..." Quanti potrebbero riscrivere queste dolcissime parole in calce ad una foto un poco sbiadita dal tempo, che ritrae i propri compagni di classe! Nostalgia di un passato che sedimenta i ricordi più belli? Forse. Ma l'artista Giannetto Bravi preferisce esorcizzare i rimpianti, presentando l'immagine con la scritta su una tela di 165 x 109 cm. in una mostra al Museo Ken Damy di Milano che ha per titolo "la memoria riappropriata".
Recupero del passato come atto riflessivo, cosciente riesame di valori esistenziali, attraverso un percorso di immagini prese dal cassetto dei ricordi o staccate dalle pareti di casa, semplicemente incorniciate o riportate nelle loro cornici e codificate nei nomi familiari, su grandi tele Rembrant. Bravi, che ora vive a Cislago, è un noto artista dell’avanguardia napoletana degli anni Sessanta, dedito nell’ultimo periodo a quel filone creativo che fa uso della rappresentazione fotografica per un’indagine sul linguaggio dell’arte.
La mostra al Ken Damy segue un percorso scandito da sezioni distinte per composizione espositiva e luogo di riappropriazione dell’immagine. Aprono questo viaggio della memoria, cinquanta fotografie in cornici standard prese dall’album di famiglia, metafora di un mosaico mancante di alquante tessere.
Ne “la biologia del tempo” invece, la struttura compositiva sulla parete si definisce nel quadrato formato da 108 pezzi di due foto-tessera dell’artista giovinetto.
Sono due le stampe con cornici fotografate e tre le foto cartolina rispettivamente dei temi “dal corridoio” e “dalla stanza degli ospiti”.
I ritratti di “Laura Bonato”, “Rina Bonato su triciclo con sconosciuta”, “Carlotta, Angiolo, Giovanni e Giannino” ed altri ancora, con passe-partout che riportano i nomi e vecchie cornici di legno o d’argento, anch’essi fotografati, diventano immagini cariche di sacralità nelle gigantografie su tela, “referenze familiari sottoposte ad una doppia codifica visuale”.

Fabrizio Rovesti

 

Lombardia Oggi – Arte – Domenica 9 Gennaio 2000

Questi i “Ravioli al vapore” conditi da Giannetto Bravi
I popoli si conoscono più per alcuni aspetti esteriori che per le caratteristiche che li sostanziano. Così dei cinesi abbiamo in mente immagini peculiari, come quelle riguardanti gli oggetti legati al consumo del tè o dei cibi offerti dai ristoranti tipici, ormai diffusi ovunque. Giannetto Bravi ha selezionato alcune di queste icone commerciali e le ha portate, con trasferimento fotografico, su tela, quindi, appendendole ai muri della galleria milanese Dieci.Due!, ha creato anche con l’inserimento di suppellettili, degli ambienti cineseggianti. Titolo della mostra “La mia Cina è buona da mangiare”. Sulle pareti risaltano le immagini colorate e un po’ sfocate del “Pollo fritto al limone”, delle “Cappelle di funghi con verdura saltata”, dello “Stufato d’anatra saltato con alghe”, dei “Ravioli al vapore”, illustrazioni fotografiche su sfondi rosso lacca, che al ristorante aiutano il cliente a scegliere i piatti proposti dal menù.
Due raffinate installazioni, “Tè Jasmine” e “Glappa di lose”, si avvalgono, la prima, di tavolino in stile dinastico, teiera e due tazze, la seconda, di tavolino, centrino ricamato, grappa di rose e due bicchierini; entrambe sono collocate davanti a due grandi tele che riproducono i sottopiatti plastificati dei locali pubblici: un “finto” scenario orientale – come scrive nella presentazione Lorella Giudici – fatto di fiori e leggiadre fanciulle, dipinto in origine, come augurio di felicità e prosperità, da un antico maestro cinese, poi ridotto a oggetti di consumo e ora rifotografato da Bravi, “che gli ha restituito l’onore e la dignità di un luogo d’arte”. Ancora un bel ingrandimento, su tela, di un sottopiatto riccamente ornato, “L’acqua è calma tutta d’intorno” con campanule rosa e due anatre variopinte.
Insomma, Bravi si appropria della iconografia commerciale della Terra del drago, attuando una operazione che conferisce all’opera ricreata l’aura del pezzo unico. Nelle installazioni, che non hanno riferimenti nella realtà, l’artista incrementa il potenziale evocativo del lavoro, esteticamente affascinante, mediante l’aggregazione di oggetti simbolo. Possiamo senz’altro parlare di “simulazione”, secondo il pensiero di Jean Baudrillard, ovvero del processo di creazione dell’immagine “simulacro” attraverso la strategia, estetica, della seduzione.

Fabrizio Rovesti

 

TESTIMONIANZE DI UN PERCORSO TUTTO NAPOLETANO

Diversamente dai grandi emblemi “costruiti” dall’uomo quali monumen-ti bloccati nel tempo (le piramidi, la torre Eiffel, le Torri gemelle e così via), il Vesuvio rappresenta il simbolo vivo, pulsante di chi attorno vi di-mora o ne conosce il fascino. La storia del vulcano parla di periodi di quiete ed altri di fremiti anche violenti; di anni in cui la gente trascorre una serena esistenza ai suoi piedi e di momenti nei quali il grande cono si risveglia seminando finanche la morte. Pompei, Ercolano e Stabia sono sarcofagi che racchiudono le testimonianze del dramma avvenuto nel 79 d.C; e in molti napoletani è ancora vivo il ricordo dell’eruzione del 1944, di tale intensità da dare forma all’attuale cratere centrale.
Chi allora meglio di Giannetto Bravi, artista e geologo vissuto a Napoli, poteva cogliere questo duplice volto del paesaggio naturale, umano e ar-cheologico che cinge il vulcano? La sua attenzione creativa verso i luoghi e la gente del Vesuvio ha un lungo cammino iniziato nel 1969 e tuttora in corso. Ecco quindi una mostra per exempla, con lavori dal 1972 al 1990 che seguono il filo rosso del tema “Vesuvio paesaggio di vita e di morte”.

Dal panorama dato a quello costruito e viceversa

La propensione all’indagine scientifica di Bravi si fa avanti alle soglie del suo operare artistico. Sono opere di ricerca visiva dipinte con colori indu-striali le Verifiche presentate nella prima personale alla Galleria Fiamma
Vigo di Roma, nel ’67, volte a investigare la relazione spazio-colore e l’impatto sull’attività sensoriale del fruitore. A proposito di questa mostra è interessante richiamare alcune lucide riflessioni esposte da Achille Bonito Oliva nella presentazione: “Stabilire un rapporto aperto con la civiltà tecno-logica in cui viviamo significa riconoscere la trasformazione irreversibile della natura in storia, del panorama dato in panorama costruito. Un panorama che dispone all’interno di tutti gli strumenti di vita necessari e per questo si pone come una
vegetazione artificiale in continua espansione, secondo il criterio della pura vitalità. L’intervento specialistico dell’artista serve a porre sotto sistemazione formale gli elementi reperiti da questa natura di secondo grado, la quale non si lascia assolutamente contemplare ma agisce come antagonista sull’uomo attraverso l’aggressione di stimoli visivi, sempre più perfezionati dai procedimenti industriali.”.

La posizione di Bravi virerà presto verso una più profonda presa di coscienza del panorama naturale, mentre terrà conto in opere successive (gli assemblaggi di cartoline) delle valenze percettive del panorama costruito. Happening e contestazione concorrono a determinare il clima nel quale Giannetto Bravi con l’amico Gianni Pisani e un gruppo di artisti napoletani fondano nel ’69 la Galleria Inesistente (tale era) e progettano l’occupazione della bocca del vulcano per appiccarvi il fuoco. Ecco una prima operazione collettiva al centro della quale sta il Vesuvio e alla quale partecipa anche il nostro, che con atteggiamento romantico scende in difesa del
vulcano nell’arena dell’arte comportamentale.
E in tale ambito espressivo lo ritroviamo nel ’71, al milanese Centro Apollinaire, quando propone le Valigie con catene, oggetti veri e propri in metallo al cui interno sono visibili delle catene utili per avvolgere la persona amata, come viene illustrato in una sorta di “istruzione per l’uso” composta da una serie di scatti fotografici realizzati da Mimmo Jodice nel corso di una performance documentativa. “Bravi, da buon romantico, – osserva Pierre Restany introducendo la mostra – ha optato senza equivoco per le
gioie profonde della solitudine a due, per i più dolci legami dell’amore
”. Valigette, atteggiamento romantico, dolce legame con il suo vulcano saranno alcune delle componenti nella “Operazione Vesuvio” intrapresa, l’anno seguente, da Giannetto Bravi a fianco di Pierre Restany. A tale proposito scrive il critico francese ventidue anni più tardi nella presentazione della rassegna “Abbiamo tutti una famiglia napoletana” al Museo Ken Damy di Brescia: “Era il 1972, in pieno periodo di land-art, e io proposi ai Napoletani la conversione dei bordi della cima del Vesuvio in un parco culturale internazionale aperto agli artisti di tutto il mondo …siccome questa manifestazione coincideva con le elezioni generali, Giannetto partecipò alla campagna elettorale fasulla che mettemmo in piedi, Gianni Pisani ed io, per dare un’eco più vasta alla mia idea… Credo in effetti che ‘l’Operazione Vesuvio’ ha toccato Giannetto Bravi al cuore della sua sensibilità profonda di napoletano”. Gli esiti visivi dell’iniziativa furono esposti nello spazio napoletano de “Il Centro”.
Nella riassuntiva che presentiamo, testimoniano l’Operazione una valigia numerata (è prevista la numerazione da 1 all’infinito!) quale “Progetto per l’invaligiamento del Vesuvio come rimando nel tempo di fossile materico e preservazione del cono” e alcune stampe fotografiche su carta Fabriano e metallizzata argento e oro. Di nodale importanza, anche per il lavoro successivo, è stato l’invio di cartoline postali della mitica montagna con indicato il luogo preciso in cui il destinatario doveva prelevare un “pezzo di Vesuvio” da riportare in tempi migliori, quando si fosse placata l’avvilente corsa alla speculazione edilizia, per ricostruire il cono vulcanico. “Il ricorso
alla cartolina che riproduce il cratere del Vesuvio
– scrive Restany - ha costituito nel 1972 il contributo maggiore di Giannetto alla mia opera. Il suo intervento in qualche modo portava avanti il mio progetto”. E ciò avviene per diversi anni, tant’è che in altra occasione Restany ha modo di dire “L’unico che ha voluto andare oltre nell’intervento sul Vesuvio è stato proprio Bravi”. E ancora: “Ho ricevuto durante la prima metà del 1973, e cioè durante sei mesi dopo l’inizio dell’operazione, una serie di cartoline postali del Vesuvio come testimonianza dell’azione prolungata di Bravi su questa natura stessa”. Un’azione, osserva il critico, per certi versi simile a quella del concettuale nippoamericano On Kawara, che per un mese invia a dei corrispondenti la cartolina del luogo nel quale si trova, con l’ora della sua sveglia e l’ora in cui si è addormento.


Scenari astratti di visioni iterate

Cartoline soltanto scritte o con l’aggiunta di “reliquie” di polvere vulcanica; quindi cartoline assemblate, come ritorno al paesaggio “costruito”. Un paesaggio della memoria che si incrementa quando Bravi fa le valigie, quelle personali, per portarsi verso il Nord. “Il primo amore non si scorda mai”: quale titolo migliore poteva trovare, nel ’74, per una personale a Milano?; alla galleria Eros, invitato da Lea Vergine e ancora da Restany, con slancio romantico rilascia cartoline con il timbro del Vesuvio. Sono
dello stesso anno “Frammenti” (42 cartoline, col medesimo soggetto, che montate corrugate fanno da sfondo ai cocci di un piatto ricordo di Napoli) e “Amor di Vesuvio”, con cuore rosso in lenci su cartoline. Man mano l’artista dilata i suoi “tappeti di illustrate”, iterando sulla tela o sul tamburato la stessa immagine, come in “Paesaggio ripetuto n. 3”, raramente cambiando soggetto nello stesso quadro (un esempio è dato da “Paesaggio misto” del ’75). La ripetizione di una medesima immagine conduce alla metamorfosi di una rappresentazione figurativa in un una grande composizione astratta. Non di rado, con l’aggiunta nell’opera di un contenitore
trasparente con roccia, terra o altro l’artista sembra voler recuperare il dato reale.
Come è stata letta questa nuova iconografia da alcuni dei maggiori critici del momento? In un dibattito, che ha coinvolto, oltre a Bravi, quattro nomi importanti della cultura artistica (Vicky Alliata, Gillo Dorfles, Pierre Restany e Lea Vergine), tenuto nel luglio del ’76 in occasione della personale alla galleria Milano nel capoluogo lombardo, emergono posizioni piuttosto variegate. Dorfles vede nei quadri di Bravi quella “iterazione allucinante” presente nel lavoro di Andy Wharol, dal quale tuttavia il nostro si differenzia per la carica di “napoletanità” che lo caratterizza: “Bravi è stato influenzato, è stato colpito evidentemente già dalla sua infanzia dallo spettacolo
fastoso e, nello stesso tempo, cruento e minaccioso del Vesuvio. Tra le più belle sue composizioni ci sono quelle in cui la riproduzione dell’iterazione costante del cratere del vulcano acquista una perentorietà e una coercitività estremamente suggestiva
”, inoltre servendosi di immagini vagamente folcloristiche introduce quell’elemento “di sacralità popolaresca che a Napoli è così vivo perché ha, allo stesso tempo, la radice superstiziosa e la radice cupa del malocchio, dell’esorcismo…”.
Risulta determinante per Dorfles il recupero dell’immagine triviale,dato dalla cartolina “che viene assunta e sussunta ad immagine prototipo, archetipo” e “che ci dà della realtà un’immagine emblematica” ovvero un simbolo popolare cristallizzato più forte di una qualsiasi immagine fotografica che normalmente racchiude valenze più sofisticate.
Restany pensa, invece, che il feticismo di Bravi acquisti progressivamente un’altra dimensione “…una dimensione di oggettivazione: la cartolina postale diventa una specie di promemoria, cioè il feticismo della memoria diventa la memoria del feticismo…nel momento in cui la cartolina non è stata più uno strumento di intervento sulla natura del Vesuvio, inserito in un progetto concettuale collettivo,
ma ha acquistato la sua autonomia oggettiva, da questo momento in poi Bravi ha potuto adoperare la cartolina come un elemento quasi modulare, come un mattone
”, quindi non si tratterebbe di una struttura ripetitiva, “ ma di una struttura aggiuntiva”. L’aspetto maggiormente interessante nella ricerca di Bravi è per Restany “…la trasformazione del modulo in una struttura architettonica dell’immagine”, in funzione della lotta contro la perdita di sostanza semantica dell’immagine stessa: l’artista cerca “di conservare la memoria di una semantica
che se ne va, di una simbologia che sarà veramente la più minacciata dal tempo…”.
Lea Vergine, impiegando una chiave di interpretazione di tipo psicoanalitico, ritiene che le opere di Bravi documentino “un sogno collettivo d’impotenza …la testimonianza di un gran deficit affettivo…”, “ è il lavoro di colui che preserva le tracce; da anni colleziona questi oggetti”. In esse vede, prima ancora che figure, segni resi astratti in base al procedimento di accumulo e di allineazione,
in base all’inventario che l’artista fa: “Il divenire ossessivo del suo cerimoniale che, come tutti i cerimoniali, nasce da un’esigenza di difesa, da un’esi-genza di preservazione, da misure precauzionali, mi fa pensare al processo di museificazione… Cioè una delle componenti del suo lavoro, mi pare la maniacalità del collezionista.
Vicky Alliata concorda con l’interpretazione della Vergine relativamente all’analisi sul collezionismo, intendendolo non come accumulo di ricchezza, ma come soluzione alla sconfitta, e da parte dell’adulto a possedere il mondo, o a possedere un amore totale, e da parte di una classe che si sente sfuggire il potere o sente che il potere non lo potrà mai avere. “Non mi interessa che lui ripeta nel quadro la stessa cartolina, questo non lo chiamo collezionare; quello che mi interessa è l’operazione globale che, citando Balzac, è una ma nia, ossia un piacere passato allo stato di idea. E’ l’uso che fa Bravi di elementi completamente diversi, non solo della cartolina, ma dei reperti del vulcano, delle suppellettili dei salotti, di materiale da vetrinista…, tutti elementi che giornali d’arredamento piccolo borghese ci danno come dei ‘must’, come delle necessità per arredare la nostra vita quotidiana. E’ questo secondo me il collezionismo diluito della
piccola borghesia: la vita intesa come surrogato, e tutto il lavoro di Bravi consiste nell’esplicitare proprio questo
”.
All’ombra del Vesuvio”, 1978, è la grande tela su cui sono accostate 72 cartoline con lo stesso soggetto della via partenopea brulicante di gente, la cui messa a fuoco da parte del fruitore avviene soltanto avvicinandosi all’opera una volta superato l’abbacinante smarrimento della visione da lontano. Intense suggestioni provengono, altresì, dalle visioni astratteggianti della serie di grandi tele e tavole, degli anni Ottanta, in cui sono disposte con ossessività cartoline assolutamente uguali di immagini pompeiane, tematica prevalente in questa rassegna. Strutture modulari e tonalità dominanti connotano formalmente i collage: il rosso pompeiano e il nero, che delinea i graziosi “Amorini”, contrassegnano il fregio-simulacro della Casa dei Vettii, così come altre composizioni geometrizzanti con luccicanti cromie determinano affreschi “virtuali”, quali “Venere e Marte” e “Villa dei misteri”, o le molteplici celle de “La morte nel sonno” e del “Calco del cane”.

Ritratti dei grandi e grandi immagini

Staccandosi per un momento dalla calamita vesuviana, cosa che ripeterà in altre rassegne monotematiche, l’artista, nel 1980, coinvolge i tre critici del dibattito appena ricordato, Dorfles, Restany e Vergine, ed altri quattro
non meno autorevoli esegeti, Guido Ballo, Achille Bonito Oliva, Antonio Del Guercio e Filiberto Menna, nell’operazione “Ritratto-Autori-tratto di sette critici” presentata allo Studio Marconi di Milano, in cui espone i volti di tali personaggi accompagnati da una loro presunta rivelazione su un segreto personale. Scatta un allarme “quando ci riconosciamo nel ritratto, e nello specchio - scrive Menna -, ma nello stesso tempo avvertiamo che nell’immagine riflessa appare qualcosa che non conosciamo perfettamente. Da questo punto di vista il ritratto può essere considerato ‘unheimlich’, perturbante, nel senso indicato da Freud, ossia come un qualcosa che è appunto l’antitesi di ciò che è ‘heimlich’, familiare, abituale. Il Somigliante è in sostanza una maschera ed in quanto tale rinvia a qualcosa che sta al di là dell’apparenza, ad un segreto che la maschera in parte rivela ed in parte nasconde …Giannetto Bravi sembra porre allo scoperto questo meccanismo. Ma prende una scorciatoia, lasciando al soggetto ritratto il compito di inserire nell’opera il proprio oggetto segreto …un dettaglio che ora sta dentro il ritratto con il compito ambizioso di svelarne l’altra faccia …Ma il luogo del segreto è veramente raggiunto? O non si tratta, ancora, ed ine-vitabilmente, di una maschera e di un travestimento?”.
Ritratti fotografici, a volte incorniciati, usciti scoloriti dai cassetti dei ricordi familiari, cartoline tipiche di panorami e di tipi napoletani, spesso con scritte, vecchie locandine cinematografiche costituiscono il patrimonio iconografico da cui germina un altro filone d’investigazione dell’arti-sta.
L’immagine, riportata con moderni metodi fotografici su grandi tele, “sottratta al suo contesto preesistente - come scrive Cristina Casero nella pre-sentazione della mostra “Cinema amore mio” nel ’98 allo Spazio Cesare da Sesto –, viene salvata dall’indifferenza cui era altrimenti destinata, per essere isolata, ingrandita, messa in rilievo e tradotta in una nuova veste, in un’altra dimensione, quella specifica dell’arte”. Se nei grandi “tableaux” delle immagini iterate assume particolare significanza l’aspetto estetico-percettivo, in questi lavori viene compiuta un’operazione che conferisce all’immagine recuperata dall’iconografia mercificata l’aura del pezzo unico. Con tale operazione si ha, anche qui, un’ulteriore perdita di contatto con il reale, determinandosi, secondo il pensiero di Jean Baudrillard, l’immagine simulacro
attraverso la strategia estetica della seduzione Un incontro esemplare con questa poetica di Bravi si è avuto nella rassegna “Napoli sei bella da morire” del ’98 nello spazio milanese Derbylius, a proposito della quale Lea Vergine scrive: “Il Vesuvio in eruzione – o solo
impennacchiato -, il Castel dell’Ovo, Via Partenope, la ragazzina sbrindellata con l’orciuolo, il venditore di grattugie, tutti questi luoghi ormai risibili, stucchevoli, impolverati di compiacimento stantio, rielaborati così come li vediamo alle pareti, hanno una seduzione astuta. Il discorso di Bravi non è così esplicito come sembra. La sua semplicità è complessa. I suoi ricordi apparentemente languidi e appassionati sono una gelida, accurata, paziente simulazione. Qui i sentimenti sono trattati, falsificati, ridotti a ‘quadri’. L’immagine di consumo preziosamente volgare (…) o ingenuamente pubblicitaria (la funicolare vesuviana) comportano
quel che si dice in gergo un massimo di ‘effetto’. Perché Bravi fotografa le foto, le cartoline? Perché realtà e passato sono gli argomenti di questo suo lavoro. Dunque il Castel dell’Ovo era là così ed è indiscutibile; ed è stato separato da noi, è stato differito. E questo processo è vissuto con un filo di sofferenza, non è dato come scontato. Si tratta di quel che ha analizzato stupendamente Roland Barthes.
Quindi ciò che Bravi ha perduto – e noi con lui – non è la storia scritta sulla cartolina, né i tipi napoletani, né l’immagine dei maccheroni, ma l’essere di tutto questo, e non solo, è la qualità di tutto questo, che è poi la qualità del tempo. Bravi vuole comunicarci che non si è perduto l’indispensabile ma ciò che abbiamo perso, ciò che non è più, non è sostituibile
”.
La mostra di Villa Pomini si chiude cronologicamente con “Paesaggio napoletano”, un gruppo di sei cartoline montate su altrettante stele, e con l’estesa tela “Eremo Hotel”, del ’90, che riprende l’immagine del “Vesuvio impennacchiato” di una vecchia réclame della ferrovia e funicolare Vesuviana.
Le cartoline si stagliano come icone sacrali su alte aste, ironici monumenti al segno massificato e alla natura divenuta, con Baudrillard, merce di scambio simbolico…”: così Angela Vettese commenta “Paesaggio napoletano”, che colloca nel “polo freddo” dell’arco espressivo di Bravi ripercorso in occasione dell’antologica all’Associazione Artistica Legnanese nel 1991.
In tale circostanza Vettese rileva nell’artista la presenza di due elementi: “da un lato la conoscenza profonda di una cultura locale che, per la sua tipicità, si è posta al mondo come simbolo universale del folklore; dall’altro un’attitudine scientifica al rilevamento, alla verifica, al reperto. Insieme questi due aspetti hanno dato luogo a un’indagine sul territorio sia dell’arte che della vita svolta su un doppio binario, quello caldo della semantica sociale e quello, freddo, sul linguaggio dell’arte. Due filoni strettamente intrecciati, anche se sempre disposti a ripresentarsi anche scissi, che se si è in vena di categorizzare possono far pensare a una crasi di reminiscenze pop e concettuali”.
Concludendo. Giannetto Bravi, e come lui ogni buon napoletano, pur sapendo con Plauto che “la fiamma è immediatamente vicina al fuoco
”, non può fare a meno di quel Vesuvio: paesaggio assolutamente vitale.

Fabrizio Rovesti, Legnano, Marzo 2000

 

La Prealpina - Inserto Lombardia Oggi - 4/2/2001 

Il moto degli affetti secondo Giannetto Bravi, alla galleria Mosaico di Chiasso

“Pas de Deux”

Dall’artista Giannetto Bravi sono nati, tra gli altri, i cicli tematici legati all’iconografia degli affetti, dall’erotismo, del cinema così come ci sono stati tramandati dai manifesti, dalle cartoline, dalle fotografie di parecchi decenni fa.
Questo patrimonio di vecchie immagini è attraversato da un filo rosso che congiunge “le coppie e genera un nuovo raggruppamento di opere, ora presentato alla galleria Mosaico di Chiasso. Bravi propone così un percorso tra differenti maniere di rappresentare “i moti degli affetti, le relazioni accennate o costruite – osserva Francesco Tedeschi nella presentazione - che segnano diversi modi di rappresentare quel mondo privato capace di svelare piccoli segreti…”.
Dalla ufficialità dell’antica pittura parietale di “Pacquio Proculo e sua moglie” (ripetuta nell’assemblaggio di 77 identiche cartoline pompeiane. 1980) alle passioni cinematografiche di Nita Naldi per Rodolfo Valentino in “Notte Nuziale” (gigantografia su tela di un’immagine d’epoca. 1998), alle cartoline “Porte bonheur”, ingrandite su tela, con tanto di foto degli innamorati e di languide dichiarazioni autografe. Pezzi unici germinati da immagini “promozionali” di un sentimento universale e senza tempo, capaci di abbandonarci “fra le incertezze dell’ignoto e le tracce di una storia possibile”, come indica il titolo stesso della mostra: “Pas-de-deux”, passo (o niente) a due.

Fabrizio Rovesti

 

Lombardia - Oggi domenica 20 aprile 2001

Bravi, un amore per il cinema

Il Museo Pagani di Castellana apre la stagione estiva con il terzo atto di “cinema amore mio” di Giannetto Bravi, che porta nuovi contributi visivi al suo repertorio legato al mondo della celluloide. Introduce la mostra una vivace scena del film “A caccia di spie”, che vede David Niven impegnato a smascherare un complotto internazionale. Ingrandendo su tela rembrandt una vecchia pubblicità, Bravi determina – come scrive il critico Alberto Fiz - “una sorta di “trompbe l’oeil” capace di creare un senso di straniamento basato sulla relazione tra due assenze: la pittura e la fotografia. Entrambe sono evocate dall’unica presenza, l’immagine-feticcio che in questa logica trova una nuova collocazione”. Altre dieci grandi tele completano questa suggestiva galleria di personaggi fermati nelle loro azioni sul set cinematografico: dalle scene mai viste dalle nostre generazioni, come quella patetica de “La Preda” o di certi vecchi film girati negli spazi hollywoodiani, sino al volto inconfondibile di un Totò di annata. (f.r.)

Cinema amore mio 3 – A Castellana, Museo d’arte moderna Pagani, via Gerenzano 70, fino al 27 maggio. Orari: giov./ven. 17-19, sab.-dom. 10-12.30 e 15-19

 

Lombardia oggi - Domenica 23 settembre 2001

Simbolismi d’autore a Como

“Simboli e simbolismi” è il leitmotiv del XXXV Festival Internazionale “Autunno musicale a Como” nel cui ambito viene proposta, nello Shed spazio nuova Ticosa, una mostra dedicata a tale tematica nell’attualità artistica.
L’esposizione “Simboli e simbolismi nell’arte contemporanea – come spiega nella presentazione il critico Roberto Borghi – prende le mosse dalla constatazione di un “abbassamento” del simbolo dal livello mitico-religioso (dell’arte di fine Ottocento) a quello mass - mediale e quotidiano odierno”.
Dei ventidue artisti invitati, che impiegano le tecniche e i linguaggi più vari, la maggior parte è interessata all’ambito “simbolico collettivo” originato dall’azione dei media o alla visione emblematica della propria condizione individuale; altri si ricollegano alla tradizione pittorica simbolista; tre artisti estremorientali esprimono una gestualità simbolica carica di spiritualismo. I nomi: Alberti, Belcaro, Bordoli, Bravi, Collina, Fehr, A.R. Gavazzi, M.T. Gavazzi, Gobbato, Gòmez, Hao-Kang, Mantero, Matsuyama, Min-Jung, Musa, Padovese, Piccalunga, Qi-Kai, Santambrogio, Soldini, Jabes, Valsangiacomo. 

Fabrizio Rovesti

 

La Prealpina - 9 Settembre 01
L’erotismo di una volta alle pareti del Margarita

Gallarate – L’erotismo sensuale, ma contenuto, delle immagini dei primi del Novecento è il tema della mostra “Erotic Collection” dell’artista Giannetto Bravi presentata dall’Associazione culturale “L’arte in primo piano” “Café Margarita”, in corso a Sempione.
L’originale esposizione fa seguito ad altre iniziative proposte nel medesimo spazio nel quale al piacere d’un incontro con gli amici si uniscono visioni dell’arte contemporanea. Un nuovo modo di presentare l’arte che pittori e pubblico stanno dimostrando di apprezzare.
Nella mostra in corso, Bravi, noto artista di origini napoletane da anni residente a Cislago, ha riportato sulla tela le immagini fotografiche ingrandite di vecchie cartoline seppiate in cui fanno bella mostra di sè sinuosi corpi femminili di un ‘epoca ormai lontana. Si tratta di un modo di procedere artistico che trasforma un’immagine di consumo in un’opera unica carica di evocazioni.
Così, ad esempio, la cartolina “Nudo con bambolina” nel quadro di Bravi muta da allegra “donnina” di tempi andati in una sorta di “Maja desnuda” del secolo appena trascorso. Una tecnica suggestiva tutta da scoprire e tutta da ammirare.

Fabrizio Rovesti

 

I numeri della Quadreria di Bravi

Giannetto Bravi si tuffa nel mare della globalizzazione.

Immagini di capolavori d’ogni tempo e luogo finiscono moltiplicati nel mare magnum della sua Quadreria. Gran parte della letteratura critica sul suo percorso artistico basata sull’idea di una napoletanità pervasiva viene per il momento accantonata, mentre sembra assumere rilevanza il concetto di "maniacalità del collezionista". I numeri della proposta, che da qualche tempo a questa parte l’artista viene elaborando, sembrano parlare chiaro.

Il progetto al Museo Capodimonte prevede la collocazione di 360 quadri, tra Ritratti e autoritratti e Fiori, nature morte, paesaggi e paesaggi con figure, ai quali si aggiungono lavori storici di metà anni Settanta e libri d’artista. Considerando soltanto i quadri, risulta un impiego di olte 2.000 cartoline, tenuto conto di una media ponderata di 6,2 pezzi per lavoro.

Ma Bravi ha selezionato le opere tra i 2500 quadri realizzati sino al 31-5-2006 (dato ufficiale festeggiato con una cena offerta agli amici), dal che risulta, a tale data, un impiego di oltre 15.000 cartoline.

Le immagini le ha raccolte negli spazi museali di mezza Europa. In alcuni casi chi scrive può dire "c’ero anch’io", ricordando come nelle ultime sale espositive l’artista, se accompagnato, suole allungare il passo per giungere prima degli altri al bookshop e fare i suoi acquisti meditati.

Sembrerebbero, quindi, presenti tutti gli ingredienti di un processo d’accumulo ossessivo tipico del collezionista, in cui convivono ansie e piaceri. Ma ciò non significa che Bravi sia un collezionista. A che servirebbe possedere più cartoline con lo stesso soggetto?

Il fatto è che il Nostro intende dirci altro. Vuole rivendicare - sulle pareti di una galleria, sulle pagine di un libro o di un giornale, nelle coscienze dei critici d’arte - un primato: quello dell’artista che ha investigato il ready-made "cartolina" in tutte le sue dimensioni: percettive, emozionali, linguistiche, formali, spaziali, temporali, iterative e così via.

Repetita iuvant.

Fabrizio Rovesti

 

Lombardia Oggi – 9 settembre 2007. Cartoline da Giannetto Bravi di Fabrizio Rovesti

Una storia di enorme mosaico parietale si dispiega lungo le pareti laterali e il fondo della chiesa sconsacrata di San Pietro in Atrio a Como. E’ la “Quadreria d’Arte 150 Ritratti-Autoritratti” di Giannetto Bravi, ovvero il complesso di quadri che l’artista “costruisce” con più cartoline identiche di capolavori d’arte (raccolte nei book-shop di musei e gallerie di tutta Europa) racchiuse in una larga ed elegante cornice dipinta in fresche cromie. La visione da lontano dell’installazione rimanda a un’estesa composizione musiva astratta scandita da grandi tessere policrome che a tratti evocano lo splendore delle antiche chiese bizantine: un primo impatto visivo che porta il pensiero del fruitore in altri ambiti, creando poi un cortocircuito mentale man mano che ci si avvicina alle opere, la cui specificità disorienta l’osservatore non aduso al modus operandi di Bravi. La sua polisemica proposta, solo di apparente semplicità, si presta a molteplici letture come dimostrano i testi critici di J. Anais Savoia, R. Borghi, C. Ghielmetti e B. Meneghel.
La visione ravvicinata dell’installazione mostra cartoline con ritratti e autoritratti di maestri della pittura replicate in quadri allestiti in modo simile a una fitta quadreria sette-ottocentesca in cui le icone dell’arte riprodotte per un turismo culturale di massa, warholmente iterate e piacevolmente incorniciate divengono simboli di un consumo “alto”, rassicuranti punti di riferimento di un “grand tour” mordi e fuggi, che inevitabilmente perdono per strada il senso profondo e universale della loro origine. E’ lo scherzo dell’ironia che Giannetto Bravi sventola al mondo – osserva Ghielmetti -, ”sperando che il mondo intero riesca ad andare ben al di là e ben al di dentro di quello che la rappresentazione fenomenologia ci porta a considerare”.