Odi, Giannetto, le mie sirene.
La traversata atlantica (al canto delle Sirene) di Giannetto Bravi e Francesca Petrolo


di Giorgio Zanchetti

“Odio il mare! I suoi balzi e tumulti,
il mio spirito li ritrova in sé; e il riso amaro
del vinto, tra singhiozzi ed insulti,
lo risento nel riso enorme del mare.”
Charles Baudelaire,
L’Obsession, (1855-60)

La Traversata atlantica (al canto delle Sirene) elaborata a quattro mani da Francesca Petrolo e Giannetto Bravi non si esaurisce nel semplice accostamento o nella giustapposizione tra due gruppi di opere, caratteristiche del lavoro dei due artisti, indipendentemente elaborate prima del progetto ed altrimenti già esposte separatamente.
Il dialogo tra le due posizioni creative si trasforma, anche, inevitabilmente, in evento, avvenimento, performance, coinvolgendo in modo non marginale la passione di Francesca per la musica anni Quaranta oppure la paziente disponibilità di un amico, capitano di lungo corso, che interverrà al “varo” della mostra per pilotare questo Rex fuori dalle secche dell’“amarcord” e della convenzionalità, verso un nuovo presunto “Paraiso di Atlantico” come lo canta Cesaria Evora e come avrebbe potuto poetarlo il miglior Paolo Conte.

“Odio il mare!”
Certo, le operazioni di “prelievo” immaginario e simbolico, tipiche dell’itinerario di Giannetto da più di venticinque anni, con il loro appuntarsi sul versante estroverso della convenzione linguistica e sociale e su quello introverso di una spossante e ambigua, semplice e complessa (Lea Vergine, 1998), pania nostalgica e sentimentale, vivono da sempre di vita propria soltanto insistendo, appunto, paradossalmente, sul loro statuto di immagini riflesse e riflettenti. Il riporto fotografico digitale sulla superficie tattilmente sensuosa, ma ormai definitivamente demistificata, della “tela Rembrandt” da pittore, mentre si pone illusionisticamente sul piano “alto” di una sorta di iperpittura da salotto neoborghese, non può evitare di riportare in primo piano le ragioni profonde delle immagini, solo apparentemente rassicuranti, prelevate dall’inconscio collettivo della prima metà del Novecento: hanno profonde radici surrealiste – come già il comportamento e gli oggetti feticistici proposti da Bravi alla fine degli anni Sessanta –, piuttosto che Pop, il sottile smarrimento e l’estetica vagamente cimiteriale emanati dall’ingrandimento scalare e dall’impudica esposizione dell’immaginario kitsch e intimistico dei maliziosi calendarietti da barbiere, delle cartoline nostalgico-folcloristiche di Napoli (Napoli sei bella da morire, 1998, Douce France, 2000), delle icone autografate del cinema (Il cinema del barbiere, Cinema amore mio, Cinema amore mio 2, Cinema amore mio 3, 1997-2001) o dell’ingenuo erotismo incipriato (Erotic collection, 1997).
E così, inevitabilmente, e forse anche con maggior forza che in altre operazioni, l’ormai incolmabile distanza poetica ed estetica di queste vignette pubblicitarie di crociera “transatlantica” appare immediatamente evidente, tra “gran soirées” danzanti, bellezze ai bagni di sole, improbabili tennisti oceanici e romantiche stellate. Forse la figura e il destino del Titanic, ideale duplicazione augurale di Atlante, dominano senza scampo, nella nostra visione, questa più tarda immagine sognate di una società, tra Europa e Stati Uniti, in bilico sulla tragedia della seconda Guerra Mondiale e della propria dissoluzione.

Per due “piedini di bambola”.
Ma che ci fanno cinque prosperose sirene tra le onde di questo stagnante Atlantico, chiuso, come un laghetto da giardino pubblico, tra le opposte rive continentali? Accompagnano festosamente le grandi navi d’acciaio (ma anche un anacronistico veliero fiabesco che si staglia all’orizzonte in un’immagine) invece di attirarle, come sarebbe loro dovere istituzionale, verso le secche e gli scogli (peraltro tutti mediterranei) della tradizione.
Forse la loro funzione è appunto quella, già più volte ribadita nella sua ricerca iconografica da Francesca Petrolo, di esprimere, in questo tormentato tramonto e passaggio tra due epoche, la natura intrinsecamente ambigua e pertanto mostruosa (metà donna e metà pesce) di chi intuisce e invoca un radicale cambiamento di stato, un volere e dover essere diversi. Le figure femminili, altrettanto inquietanti e improbabili, che popolano il transatlantico di Giannetto o ambiscono ad imitare le creature acquatiche, mascherando le loro gambe di bambolone anni Quaranta nelle “code” fascianti dell’abito lungo, o, contro ogni logica natatoria le snudano ai bordi della piscina, rendendo così manifesto il ruolo seduttivo, e sostanzialmente subordinato, assegnato alla donna in questo lussuoso immaginario turistico. Né d’altra parte alle vere Sirene – nate si rammenti come semidivinità malauguranti e pennute, sugli scogli presso Sorrento o, altrove, sul litorale etneo – è riservata sorte migliore: figure ingannevoli e vicarie di una sessualità contro natura, sono destinate a rappresentare la perdizione oppure, nel migliore dei casi, spogliandosi della propria coda lucente e del proprio principale attributo di seduzione, la voce, a conquistarsi con due esili gambette e due “piedini di bambola” (peraltro del tutto disprezzabili come suggeriva nel suo titanismo erotico il Baudelaire de L’Idéal) una “normalità” che significherà soltanto sacrificio, delusione e solitudine. Il riferimento è ovviamente alla Sirenetta di Andersen, citata esplicitamente da Francesca, come metafora di una condizione femminile sempre criticamente attuale, attraverso l’orrida morale enunciata dalla strega del mare: “Poiché il tuo desiderio non ti recherà che dolore, voglio che tu sia soddisfatta”.
E infatti la Petrolo espone in una stanza appartata Nidra, installazione del 1998, che, all’insegna di una denominazione merceologica, evoca anche il marchio di un essere mitologico e mostruoso: ad un’ampia rete da pescatore, sono appese, impigliate, figurette smangiate di sirene intagliate nel sapone, come pesciolini presi all’amo dalle convenzioni pubblicitarie e cosmetiche. Come svuotate e ripiegate su di sé restano le code che le sirene si sono dolorosamente sfilate, nel tentativo di avvicinarsi, per mutazione, ad un ideale femminile più rassicurante e convenzionale: i loro calchi, già di volta in volta realizzati in profumato e solubile sapone vegetale, in crema inglese (Pelle di sirena, Arte da mangiare, 2002) o, adesso, in un sintetico gel traslucido, sono allineati su semplici lastre di pietra tra le tele di Bravi, a costituirne un basso e straziante controcanto.

“Non saran certo queste bellezze da vignetta
prodotti avariati, nati da un secolo lamentevole,
quei piedini di bambola, quelle ditina da castagnole,
che sapranno soddisfare questo mio cuore.”
Charles Baudelaire
, L’Idéal, (1842-43)

 

Giannetto, non vorrei…

Non saprei dire con certezza - e forse nemmeno vorrei - se Giannetto Bravi sia davvero dominato e travolto da una passione o se invece domina coscien-temente la sua smodata brama d’immagini.

Nessuna raccolta, nessuna collezione - neppure quella del più vasto o del più antico dei Musei - potrebbe pretendere di accostarsi, anche lontanamente, all’estensione di questa sua Pinacoteca delle Pinacoteche (ovvero Pinaco-teca all’ennesima potenza): la raccolta (moltiplicata serialmente) di tutte le immagini d’arte possibili!

Non vorrei scadere nel facile determinismo (né tantomeno posso farlo come tardo bastardo, a mia volta, di pura razza partenopea), ma certo in questa sua ossessione del catalogo e del possesso - esercitato, in esemplare parsimoniosità d’intellettuale, unicamente grazie allo sguardo - io trovo quasi una necessità di vita, una bramosità fisiologica, una fame avita preziosamente distillata nelle scorribande giovanili degli eterni pomeriggi di Capodimonte.

Tu mi sembri, insomma, sinceramente governato da un desiderio di far vedere (scegliendo, replicando, demitizzando e rovesciando il senso comune delle cose) e di catturare forme e sguardi, simile all’istinto d’un ragno o d’una bestia da preda. O forse sei surreale come uno di quegl’insetti tutt’occhi che esauri-scono nel meccanismo della visione tutte le loro potenzialità fisiologiche?

Chi era più? - ah già, Virginia Woolf - che li metteva in relazione (parlando, vedi poi, d’una mostra di quel mostro di Sickert) con la sensazione che si prova entrando in una pinacoteca: «(…) i pittori sono influenzati dal loro luogo di nascita, che sia nell’azzurro Sud o nel grigio Nord; (…) i politici e gli uomini d’affari sono ciechi, poiché le giornate spese negli uffici atrofizzano gli occhi; all’opposto di quegli insetti che si dice vivano ancora nelle secolari foreste sudamericane che hanno la vista tanto sviluppata che sono tutt’occhi e il loro corpo è solo un lembo di pelle che tiene semplicemente insieme le due grandi camere visive. (…) Anche noi eravamo un tempo insetti come quelli, ha chiesto uno degli ospiti, tutt’occhi? Conserviamo ancora la capacità di bere, di cibarci, insomma, di diventare il colore che è racchiuso dentro di noi in attesa delle condizioni giuste per svilupparsi? Perché, come le rocce nascondono i fossili, noi nascondiamo tigri, babbuini e, forse, insetti, sotto i cappotti e i cappelli. Entrando per la prima volta in una pinacoteca, che per tranquillità, colore e isolamento dai pericoli della strada riproduce le condizioni delle fo-reste secolari, ci sembra spesso di ritornare allo stadio di insetti della nostra lunga vita.»

Entrando per la prima volta in una pinacoteca… Non so se sia questa la sensazione che Giannetto ci vuole restituire con questa sua installazione.

Il suo, sapete, è un fare ironico, elusivo, ma pur sempre ultimativo.

Non vorrei dirlo, ma il suo sorriso tutt’occhi, dietro le lenti spesse degli occhia-li, mi riporta alla sensazione un poco perversa, ineludibile e struggente che sempre mi prende quando visito un Museo che amo: che sia, cioè, l’ultima occasione per entrarci, per vedere una volta ancora molti di quei quadri…

Giorgio Zanchetti