Corriere della Sera - Mercoledì 1 marzo 1995

Operazione tipica della narrative-art, una delle linee di ricerca dell’arte concettuale, è la rielaborazione di vecchie fotografie per raccontare storie di quotidiano accadimento. Storie, quindi, che potrebbero appartenere a chiunque nella semplice banalità di esistenze che poco o nulla differiscono da tutte le altre.
Giannetto Bravi, che da oltre vent'anni frequenta il concettualismo con interventi di diverso interesse, nella mostra "La memoria riappropriata" compie un viaggio tipico della narrative-art. La materia scaturisce dagli album e dalle immagini che decorano le pareti di casa, una duplice rivisitazione che da ingiallite fotografie d'epoca si appunta su quell'iconografia che è integrante dell'ambiente domestico.
I personaggi degli album (i compagni di classe nelle fotografie "scolastiche") sono irrecuperabili nella loro identità, chi poteva riconoscerli, raccontarne le vicende e metterli in relazione con gli altri membri del nucleo familiare, è ormai scomparso. Non sono fantasmi perché la fotografia ne ha fermato per sempre la realtà dell'esistenza e, nel contempo, sono esseri ambigui che pur appartenendo alla storia individuale sono degli estranei, mentre, nelle fotografie più recenti, i momenti affiorano dalla memoria e i ricordi arricchiscono quelle istantanee che, all'epoca, segnavano soltanto un insignificante frammento di vita.
Giannetto Bravi seleziona queste immagini e le riproduce in grande formato su tela emulsionata con l’intento di riproporre segmenti di vite altrui quali possibili recuperi di identificazione personale. Così come le stampe e le fotografie di paesaggio appese alle pareti di casa potrebbero decorare qualsiasi ambiente medio borghese.
L’operazione di Bravi è quindi fra le più semplici per suggerire le riflessioni sul senso stesso della fotografia quale valore personale.

Giuliana Scimé

 

Corriere della Sera – Dentro Milano, Fotografia – Domenica 16 Gennaio 2000

Ravioli al vapore e pollo fritto. Le opere di Giannetto Bravi sono buone da mangiare.
In un mondo di realtà virtuali e di falso più vero del vero, non ci si meraviglia se il cibo che imbandisce Giannetto Bravi è buono … da vedere. Artista noto per la sua costante ricerca del paradosso, garbato e di lieve ironia, ha già esplorato alcuni dei luoghi comuni che ci vincolano senza rimedio: le fotografie dell’album di famiglia, la bellezza leggendaria di Napoli, il cinema quale passione per viaggiare in sogni e avventure irreali. In quest’ultima analisi “La mia Cina è buona da mangiare” appunta l’attenzione sulla cucina cinese d’importazione, terribilmente attuale in una città come Milano dove la Cina, con ristoranti e negozi, è una potenza economica e una presenza considerevole, non solo dal punto di vista gastronomico (pensiamo agli innumerevoli negozi di pelletteria sparsi per la città). Per non smentire i luoghi comuni, scagli la prima pietra chi non ha mai pranzato in un ristorante cinese e Bravi lo visita per noi, attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica. Con pietanze e decori d’ambiente, rigorosamente bidimensionali e privi di aromi, stampati su tela emulsionata di grandi dimensioni, di ravioli al vapore e pollo fritto, stufato d’anatra e cappelle di funghi potrebbero appartenere alla sfera dell’incubo o al desiderio inappagato di un contemporaneo Pantagruel, così esasperate e perfette nei dettagli e nei cromatismi. Come l’iconografia della tradizione cinese, riprodotta anch’essa in misure enormi, potrebbe sovrastarci con fastidio. Bravi, sfruttando il principio della ridondanza, ha innescato una volta ancora il meccanismo della percezione cosciente. L’esasperazione dimensionale è il suo strumento principe che, per un verso, obbliga all’osservazione attenta e, per un altro, trasforma la banalità di una fotografia fin troppo elementare in un oggetto significativo.

Giuliana Scimé