1999 - Milano, Studioventicinque-Associazione Culturale - Cinema Amore Mio 2 (Presentazione di R. Borghi “La Vera Natura di Questo Amore”)

In quanto housewife maltrattata, vilipesa e cornificata, la Mia Farrow de "La Rosa Purpurea del Cairo" non può che trascorrere il suo tempo libero nella rinfrancante solitudine di una sala di proiezione. Il mondo di celluloide infatti le offre molte più occasioni di gioia di quello reale, poiché le permette di immergersi in situazioni zuccherose, trasognate, eclatanti, situazioni in cui l`eroe di turno è perpetuamente fedele alla sua amata e la salva dai pericoli più impensati. Ma un giorno l`esotico e fascinoso protagonista del colossal preferito e ripetutamente visto dalla Farrow se ne esce dallo schermo e le chiede ospitalità. Stanco di dover sempre recitare la sua melensa e stucchevole parte, l`ormai tridimensionale sagoma cinematografica ha deciso di chiudere con la routine della solita storia per contaminarsi con la narrazione amara, ma non facilmente prevedibile, della vita... Una scelta come questa ai personaggi che compaiono nelle opere di Giannetto Bravi sembra non sia mai nemmeno balenata nella mente. Eppure si tratta di figure analoghe a quelle che popolano il film di Woody Allen: divi in costume, attori perennemente in posa, star dai sentimenti contraffatti, dalle emozioni simulate in quanto stabilite dal copione. Nessuno di loro, però, sembra avere la benché minima intenzione di sloggiare dalla pellicola, di evacuare lo schermo ed abbandonare in tal modo la penosa routine. A dire il vero, anche qualora avessero tale intenzione, difficilmente potrebbero metterla in atto. Perché Bravi li ha estratti dalla carta e non dalla celluloide, ne ha sottratto l`immagine da un`ulteriore immagine, da una riproduzione in formato cartolina della loro effigie. Il cinema di cui sono pregne le opere dell`artista napoletano è un cinema post-cinematografico, una dimensione in cui la luce del proiettore ha smesso di brillare e di essere mobile per conferire all`immagine la patina ferma e opaca del ricordo. Ma anche il cinema in sé è memoria, è la documentazione iconica di una storia, di una finzione che pretende di essere vera nel momento in cui la si percepisce in movimento, nel suo apparente farsi. Bravi l` ha spogliata di questa pretesa, ne ha evidenziato la consistenza mnemonica privandola di mobilità, fissando sulla tela alcuni frame tratti dai suoi reperti, dalle sue scorie visive, dai residui della sua fruizione. Le avanguardie storiche hanno assegnato agli artisti il compito di esteticizzare il rifiuto, di valorizzare in termini artistici ciò che generalmente viene considerato privo di valore. Giannetto Bravi ha preso alla lettera questo incarico trasformando dei prodotti per cinefili d'antan in sontuosi dipinti. Le sue opere infatti, benché siano prodotte con un complesso procedimento di trasporto di gelatina fotografica sulla tela, sono dal punto di vista cromatico e compositivo talmente simili a dipinti da evocare, e implicitamente citare, la grande tradizione pittorica degli ultimi due secoli. Così la figura monumentale di Assia Noris sembra emergere da un ritratto di epoca vittoriana, sul volto abraso di Rodolfo Valentino pare si sia depositata una patina tardottocentesca alla Hayez, la riproduzione del frammento di un film Western, "I desperados", occhieggia alla "Fucilazione" di Goya, mentre le immagini dei colossal degli anni Sessanta echeggiano il coevo Iperealismo. Le cartoline utilizzate dall`artista di adozione napoletana per la realizzazione delle proprie opere appartengono ad un tempo ormai lontano, un tempo in cui il culto del cinema era una religione povera, che si nutriva della venerazione di autentiche immaginette, di icone pubblicitarie circondate da un aura affettuosa, invece che di un mercato di ingombranti e costose reliquie sotto forma di gadgets. Bravi ha recuperato quel mondo e quel culto recuperandone gli oggetti di devozione, gli strumenti attraverso i quali si estrinsecava quel prodigioso affetto. Francois Truffaut sosteneva che chi ama davvero il cinema non può amare la vita. Il mondo di celluloide, insomma, secondo il regista francese, pretende di non spartire con quello reale l`affetto dei suoi fans. Ma è pur vero che la realtà mal si adatta a convivere con il suo surrogato in forma di pellicola. Perciò, indagando la vera natura dell`amore di Giannetto Bravi verso il cinematografo, mi sono chiesto se tale sentimento non contempli una sorta di rifiuto del mondo reale. Allora mi è venuta in mente la protagonista del sopracitato film, quella Mia Farrow disperatamente cinefila che, alle prese con un personaggio cinematografico che vuol eludere la finzione e misurarsi con la realtà, decide di ricacciarlo oltre lo schermo per poter vagheggiare l'esistenza di un mondo diverso da quello in cui è costretta a vivere. Una Mia Farrow ciecamente innamorata del cinema, della finzione cinematografica, che preferisce di gran lunga alla vita reale. Una Mia Farrow che, proprio per questa ragione, avrebbe potuto figurare tra i divi celebrati in questa mostra.

 

Segno - Febbraio 1999 “Giannetto Bravi” di Roberto Borghi

Definendosi, come fa spesso, un artista borghese, Giannetto Bravi dimostra di possedere non solo una buona dose di humor anglo-partenopeo ma anche una spiccata, benchè involonataria, attitudine critica. Questa definizione, infatti, permette di intuire, oltre che la sua scarsa propensione alla vita da bohéme, la natura peculiare delle sue opere. Inteso in un’accezione ampia, l’aggettivo “borghese” può essere accostato ad una vasta produzione artistica che ha il suo vertice nei grandi romanzi ottocenteschi. Di quelle opere, e della cultura che li ha espressi, i lavori più recenti di Bravi (esposti in una personale a cura di Lea Vergine presso la galleria Derbylius a Milano) conservano l’atteggiamento di fondo teso all’accumulo di ricordi. Il senso del possesso che ha sempre caratterizzato la borghesia, infatti, non ha risparmato questi particolari “beni mobili”: ogni “ricerca del tempo perduto” può, in tal modo, essere letta come il tentativo di costituire un patrimonio mnemonico. I ricordi di cui Giannetto Bravi si è impadronito sono stati sottratti a delle stampe e a delle cartoline d’epoca. Per acquisirli, Bravi si è servito della fotografia, cioè di uno strumento che, vale la pena ricordarlo, è nato proprio nel tentativo di accrescere le risorse mnemoniche collettive. Nel caso dell’artista napoletano, però, la fotografia è stata utilizzata a fini soprattutto privati. Le foto che, negli scorsi anni, ha scelto di ingrandire e di stampare sulla tela rappresentano quei frammenti dell’immaginario collettivo che, in quanto ricchi di elementi autobiografici o di riverberi emotivi, si sono trasformati nei ricordi più intimi.
Infatti il candore che emana dalle immagini proposte in “Erotic Collection” (una mostra realizzata qualche anno fa con le stampe di alcune cartoline erotiche dei primi decenni del secolo) è quello tipico delle avventure tardo adolescenziali d’altri tempi. Una analoga contestualizzazione può essere effettuata con le locandine cinematografiche proposte nei “Cinema del Barbiere” un appassionato omaggio alla Hollywood degli anni ‘50 e ‘60 vista attraverso gli occhi di un giovane stupefatto e deliziato cinefilo che, proprio in quei decenni, si aggirava per le sale di prooiezione. Le cartoline ingrandite, stampate e recentemente esposte sono, invece, riferite ad un luogo ed un tempo particolari: la Napoli di inizio secolo. Di quella Napoli, Bravi si è impadronito delle immagini più zuccherose, ammiccanti, stucchevoli. Bambine povere ma belle, scugnizzi affamati, sorridenti e irresistibilmente simpatici, vedute paesaggistiche strappalacrime, oltre che, naturalmente, il Vesuvio in eruzione: tutte le cianfrusaglie iconiche, tutte le immagini più oberate di nostalgia che si potessero rinvenire presso gli appositi antiquari. Per Bravi, però, questi frammenti del più trito folklore hanno un valore immenso, forse anche inestimabile. Sarà per le loro caratteristiche formali, insolitamente raffinate, o per la velata malinconia che emana da questa Napoli d’antan. Oppure per il piacere che scaturisce dal possederle, dall’accumularle, dall’inserirle nel proprio patrimonio mnemonico; un piacere anch’esso inestimabile per “un artista borghese” che si rispetti.

 

UN’OPERAZIONE LUNGA QUASI TRENT’ANNI

È il 1972 e Napoli sta per affrontare l’ennesima speculazione edilizia. I territori ai piedi del Vesuvio corrono il rischio di essere scempiati dalle edificazioni selvagge. Il critico Pierre Restany propone agli artisti di im-padronirsi esteticamente del vulcano per trasformarlo in un “parco cultu-rale internazionale”. Giannetto Bravi risponde all’appello inventandosi una memorabile operazione...
Oltre a rappresentare uno dei lavori più ironici, suggestivi e compiuti tra quelli realizzati dall’artista di adozione napoletana, l’“Operazione Vesu-vio” si presta ad essere considerata un’efficace metafora del suo intero per-corso artistico.
L’idea di “invaligiare” il Vesuvio asportandone progressivamente dei fram-menti per destinarli a diventare dei “fossili materici”, infatti, sembra sca-turire da due atteggiamenti che, sebbene con molteplici variazioni, sono alla base di tutte le formule estetiche utilizzate nelle opere successive.
Anzitutto Bravi sembra essere ossessionato dal desiderio di proprietà, cioè, nell’accezione etimologica del termine, di “vicinanza” (1)
, di contatto con le caratteristiche fondamentali della propria condizione personale, in questo caso emblematizzata dalla propria radice partenopea. Da qui la scelta di inserire dei frammenti di napoletanità, quali sono appunto i re-perti vesuviani, in una valigia, ovvero in un contenitore che, permettendo di recare con sé degli oggetti, consente di eludere la distanza da essi, e so-prattutto da ciò che essi rappresentano. Bravi esprime, in modo più o me-no consapevole, questa volontà di approssimazione alla propria radice an-che attraverso l’utilizzo della cartolina illustrata come strumento artistico.
La testimonianza più immediata del proprio paesaggio d’origine, l’imma-gine fotografica che ne riproduce in termini standardizzati l’aspetto, può in tal modo seguire l’artista nei suoi spostamenti e può confermarne l’ap-partenenza.
Perché l’ansia di possesso di Bravi cela al proprio interno un bisogno di far parte di una storia, di un territorio, di una condizione di
cui essere fino in fondo partecipe.
Questa dialettica di possesso e appartenenza ad uno spazio, ad un territo-rio e ai valori culturali e affettivi di cui è pregno, si inscrive in un peculia-re rapporto con il contesto temporale. Bravi non desidera solo permanere in un preciso ambito geografico, delimitato ai suoi estremi dal Vesuvio e dal Golfo di Napoli, ma pretende anche di non fuoriuscire, perlomeno in termini emotivi, da quegli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta in cui ha trascorso la propria giovinezza partenopea. Ne consegue l’intenzio-ne di “fossilizzare” lo spazio, di bloccarne lo sviluppo temporale, mante-nendolo in uno stato di perenne “età dell’oro”.
Colta in questa prospettiva, l’intera opera di Bravi sembra essere una ver-sione intimistica del progetto di Faust: fermare l’istante, sottrarre il tem-po alla sua inarrestabile fuggevolezza. A differenza dell’eroe goethiano, tuttavia, l’artista non compie alcun patto con un interlocutore diabolico, ma si limita a fare dei compromessi con la fuggevolezza stessa. Se il tem-po non può cessare di scorrere, almeno può, grazie all’arte, essere immagi-nato fermo.
Per oltre trent’anni Bravi perpetua quest’illusione realizzando opere im-perniate sull’immobilità temporale dell’immagine, prima attraverso un processo di reiterazione della stessa, poi in seguito alla sua fissazione sulla tela. Il soggetto iconografico di questi lavori è spesso il Vesuvio, “paesag-gio di vita e di morte”, come recita il titolo della mostra, ma anche pae-saggio sospeso tra vita e morte, emblema di una situazione stabilmente precaria.

Roberto Borghi, Como, Aprile 2000

(1)
dal latino pro, “vicino” e prius, “prima, anzitutto”, quindi “ciò che è anzitutto vicino”

 

MITI BORGHESI

Chiunque conosca le opere di Giannetto Bravi sa che il loro tono di fondo è improntato dalla nostalgia. Di questo sentimento, Bravi riporta alla luce il
senso etimologico, cioè il desiderio di un "ritorno" (in greco "nostos") a una condizione ritenuta felice. Ma ogni nostalgia che si rispetti ha in sé anche il bisogno del suo opposto, la necessità di una "partenza", di un viaggio di allontanamento dall'origine. Nei miti costitutivi delle civiltà, i viaggi per antonomasia, quelli che hanno un valore fondativo o iniziatico, sono effettuati via mare. Anche nella civiltà borghese - che per Roland Barthes era il frutto di un processo di "mitizzazione del presente" - questo stereotipo viene rispettato quando, nei primi decenni del Novecento, la traversata atlantica diventa un fenomeno connotato da aspetti mitici. Il continente americano, da "meta proletaria", da approdo di masse di migranti alla ricerca di condizioni migliori di esistenza, si trasforma in una sorta di "terra promessa della borghesia", in un luogo di piacere e di avventura per benestanti. Bravi rievoca quest'aura di compiutezza mitica, di felicità radiosa e totalizzante, attraverso la riproduzione di alcune immagini promozionali della vita di crociera. Gli aspetti stucchevoli di tale situazione - a volte sottolineati dalla vistosa pacchianeria delle stesse immagini - sono funzionali, oltre che alla riuscita della comunicazione pubblicitaria, al conferimento di quell'esemplarità che rappresenta un tratto caratteristico del mito: ma sono anche un efficace diversivo nei confronti di un ipotetico conato di nostalgia, uno zuccheroso antidoto a qualsiasi bisogno di "ritorno", sia esso "alle origini" o, pi semplicemente, "alla condizione di partenza". Tenendo conto delle debite differenze epocali, un tempo - ma sarebbe meglio dire: in un tempo mitico - questa funzione era svolta dalle sirene. Il loro canto serviva soprattutto a far dimenticare ai marinai il desiderio della loro patria - questa almeno è l'accusa formulata da Ulisse nell'Odissea - e in seguito a distoglierli dalla navigazione per farli naufragare. Le "Sirene" di Francesca Petrolo rappresentano una versione postmoderna e aggraziata di quelle insidiose figure, ma per chi ricorda la loro antica funzione e la contestualizza nel presente, conservano al loro interno una larvata minaccia. Barthes, in Mithologies, definisce il "mito borghese" come una "suadente abitudine alla dimenticanza", ovvero come un'abdicazione alla propria "memoria critica", spesso finalizzata all'accettazione passiva dello status quo. Da quando i miti non hanno più nulla di autenticamente iniziatico, ma sono soltanto degli strumenti di costruzione del consenso - talvolta magari camuffati da avventurose e idilliache esperienze - è bene diffidare di loro. A qualsiasi "partenza" che promette la felicità attraverso l'oblio, è sempre meglio preferire il più nostalgico dei "ritorni".

Roberto Borghi

 

POMPEI ALL'OMBRA DEL VESUVIO

Caro Giannetto,

ti confesso che Pompei ha sempre suscitato in me un senso di angoscia. Ancor più del lago dell’Averno - che in fondo non è che un tetro ma innocuo specchio d’acqua – i resti di quest’antica città mi sono sempre apparsi come un paesaggio vagamente infernale in cui la presenza di più o meno allegre comitive di turisti non ha mai intaccato il clima da the day after. Nonostante questa mia percezione alquanto catastrofica del luogo, non posso non compiacermi che tu abbia deciso di dedicargli un’opera imponente come questo libro. La tua scelta, infatti, mi conferma nelle interpretazioni che ho sin qui fornito a proposito dell’itinerario estetico da te intrapreso. Pompei in fondo non è altro che un monumento in inintenzionale alla memoria, una specie di sacrario dei ricordi più antichi dell’identità partenopea. Pompei, anzi, è, nella sua globalità, un ricordo condensato, rappreso, è la concretizzazione ante litteram di quel mondo di rimembranze solidificate che evocano le tue opere. Inoltre Pompei è un sito archeologico, o meglio il sito archeologico, il luogo in cui l’archeologia si esprime ai suoi massimi livelli, quindi una sorta di contesto privilegiato per un artista che è anche, come non smetto di definirti, un archeologo delle emozioni e uno storico dei sentimenti. E ancora Pompei è, in senso metaforico, l’estremo confine del Golfo, il limite ultimo di quel territorio più affettivo che geografico in cui transita la poetica del tuo lavoro. E infine Pompei è, per te, qualcosa di simile ad un ritorno alle origini, anche se in una prospettiva non ambivalente, un ritorno intrapreso in una direzione univoca: Il Vesuvio, da cui avevi fatto iniziare il tuo percorso artistico attraverso la partecipazione all’omonima Operazione creata da Pierre Restany nel caso di Pompei non è più paesaggio di vita e di morte, ma solo di morte .E giunti a questo punto della nostra lettera, lasciami rivendicare il fatto che – fra i tanti critici, molti dei quali illustri, che si sono espressi sul tuo lavoro – solo io credo di aver sottolineato la patina tutto sommato luttuosa (bada che uso il termine con la consapevolezza di ciò che esprime) che talvolta si deposita persino sulle opere apparentemente più allegre. Si, Giannetto, talvolta le immagini che tu recuperi e trasponi sulla tela hanno un carattere funebre, anche se espresso con uno stile a volte sontuoso e debordante, altre volte ironico e ammiccante. Ma dietro il clin d’oeil dell’uomo di gusto- e anche dell’artista navigato, diciamolo pure - io spesso intravedo lo spirito tragico della cultura partenopea, di quella cultura che ha anche in Pompei le proprio origini. Credo fosse proprio Plinio il Vecchio - che, come sai, è stato cronista e vittima della storica eruzione – a dire che il senso della catastrofe era uno dei maggiori stimoli alla ricerca di bellezza. Nelle mie rare visite di Pompei, lo stato d’animo angosciato non mi ha mai impedito di percepire la bellezza del luogo. Allo stesso modo, nelle tue opere, la visione della patina tragica non mi ha mai impedito di constatarne il valore. 

Tuo affezionatissimo Roberto Borghi, 2000

 

EFFETTO NOTTE

Forse tutto nasce dal bisogno di evitare i luoghi comuni più antichi, di intaccare la monumentale saldezza di stereotipi millenari. Troppi secoli di retorica sulla luce, sulla sua essenza benefica, sul suo ruolo di metafora per antonomasia del positivo hanno indotto a dimenticare che l’eccesso di luminosità abbaglia, rende ciechi, perché la luce, come scrive Beckett, può essere “la più fitta delle tenebre, se è solo luce”. L’importanza attribuita alla notte da una precisa tradizione estetica - che da Novalis giunge sino al Surrealismo - è dovuta a questa insofferenza per la condizione diurna e per i suoi risvolti simbolici. L’antielogio della chiarezza, in tutte le sue sfumature di senso, della razionalità, della consapevolezza obbligatoria e della gioia forzosa ha parallelamente generato, in quasi due secoli di arte notturna, l’apologia dell’oscuro, della forza catartica dell’inconscio e del piacere dell’abbandono malinconico. Solo di recente, soltanto negli ultimi decenni, la notte ha cominciato a essere pensata e rappresentata come un luogo esterno alla consueta oscillazione fra negativo e positivo, sino a trasformarsi in un antidoto alla dialettica e allo schematismo concettuale imperante, in una salvifica via di uscita dall’apriorismo, dalla celebrità, dalla logica lapalissiana che abbonda nella produzione artistica contemporanea. Questa mostra documenta tre possibili opzioni di senso della condizione notturna, tre varianti estetiche che declinano il medesimo, suggestivo effetto. La notte come archetipo, come dimensione primigenia, come luogo dell’origine da cui, secondo un’involontaria citazione biblica, emergono le sagome degli oggetti plasmate dall’aporto della luce nelle opere di Mariella Bettineschi e Nazareno Guglielmi. La notte come territorio da esplorare con gli strumenti della memoria, come ambito privilegiato dell’esercizio del ricordo, ma anche come zona ad alto rischio di oblio, nelle opere di Giannetto Bravi e Anna Rosa Gavazzi. La notte come spazio interiore, reso accessibile dagli sguardi, o come tempo esteriore misurato dai gesti nelle opere di Sebastiano Mauri e Stefania Molteni. 

Roberto Borghi, 2001

 

MUSEO BRAVI

Da ormai qualche anno il museo è la nuova frontiera dell’architettura. Edifici più o meno innovativi, fastosi ed eclatanti spuntano un po’ dovunque con lo scopo di celebrare, nell’ordine, il genio del progettista, la lungimiranza degli amministratori pubblici che ne hanno voluto la costruzione, la città o il territorio in cui sono collocati, l’arte che ospitano al loro interno. Di questi musei griffati, che sembrano fatti apposta per esibire le pregevoli rifiniture dei loro book-shop e delle loro caffetterie, Giannetto Bravi ne ha visitati a decine, forse persino a centinaia, compiendo lunghe flânerie in Italia così come in parecchie nazioni d’Europa. Nei famigerati book-shop, che per un minimo di orgoglio patrio continuo a voler chiamare librerie, ha fatto incetta delle cartoline con cui ha realizzato le opere in mostra: assemblaggi – piuttosto contenuti per numero di pezzi e dimensioni – di riproduzioni di opere d’arte non sempre famose e neppure belle, che tuttavia, nel loro insieme tendenzialmente fluviale e illimitato, hanno la pretesa di fornire uno spaccato suggestivo e magniloquente di svariati secoli di produzione artistica.
Il fatto che, nel caso di questa mostra, tutte le cartoline rappresentino immagini di ritratti o di autoritratti è poco rilevante. Il vero soggetto dei più recenti lavori di Bravi non è infatti l’opera d’arte, né la sua riproduzione di benjaminiana memoria, e nemmeno la sua micragnosa mercificazione, ovvero la sua riduzione a gadget mal realizzati e di cattivo gusto. Il vero soggetto della dettagliata e ossessiva operazione che va sotto il nome di Quadreria d’arte è proprio lui, il museo, griffato o scalcinato che sia, purché consenta di stare al riparo dalla vita. Le opere di Bravi si sono già occupate di dimensioni protette dalla logorante approssimazione e dal copioso smarrimento che caratterizzano la quotidia-nità: il cinema, per esempio, e soprattutto il passato sono stati i luoghi più frequentati dai suoi recenti lavori. “Il futuro... non lo conosco. Il presente... mi sfugge. Solo il passato mi offre qualche certezza” recita un esaustivo aforisma dell’artista pubblicato dalle edizioni Pulcinoelefante nel 2001. Il museo è un luogo che offre imperiture e gradevoli certezze, insieme a possibilità di escursioni cronologiche, di viaggi in un passato da smontare e rimontare attraverso le sue propaggini editoriali rappresentate dalle cartoline. Può darsi che, per approfondire ulteriormente il senso della Quadreria, sia opportuno rievocare un ben preciso contesto culturale. Bravi ha respirato il clima degli anni Settanta, in cui la riscoperta del museo come fonte di ispirazione è stata una moda diffusa e spesso letale, che ha generato mostruose deformazioni della pratica artistica come il citazionismo, l’anacronismo... Sono però convinto che la sua passione per il museo scaturisca da motivi del tutto biografici: dalla sua anima di flâneur, di instancabile turista dell’arte alla ricerca di nuovi capolavori, ma soprattutto dalla sua vocazione all’enciclopedismo, che deriva in fondo dall’ansia di ordinare, di catalogare e in questo modo fermare e possedere il tempo. La Quadreria d’arte è una sorta di museo dei musei, un museo à la carte, un museo d’asportazione. Al suo interno non sono presenti minuziosi apparati didattici, né sfavillanti soluzioni d’allestimento e nemmeno book-shop o caffetterie. Il museo Bravi non è forse all’avanguardia, ma offre più di altri il vero confort che è lecito aspettarsi da un museo: protegge dalla consunzione delle mode, dà la sensazione che l’arte sia una dimensione fuori dal tempo.

Settembre 2007. Como. San Pietro in Atrio. Quadreria Arte. 150 Ritratti-Autoritratti. Roberto Borghi. Testo Catalogo.